Sono passati solo pochi giorni dalla manifestazione organizzata da Cgil, Cisl e Uil a Torino, Firenze e Bari sul tema “Cambiare le pensioni. Dare lavoro ai giovani“, ma l’approvazione della Legge di stabilità fa apparire anacronistiche alcune delle proposte presentate dalla Triplice. Ciò, non tanto per essere giunte fuori tempo massimo rispetto all’iter procedurale di approvazione del disegno di legge (anche perché, in realtà, le posizioni su detti temi erano già note), quanto perché sembrano collocarsi in una realtà ormai non più presente nemmeno nelle aule parlamentari e ispirate da logiche di proposizione che potevano suscitare interesse politico alcuni lustri addietro.
L’aspetto paradossale è che il documento sindacale, se condivisibile in alcuni obiettivi (adeguatezza del trattamento pensionistico per i giovani, offrire stabilità contributiva, ecc.) risulta contraddittorio negli assunti posti a premessa dello stesso. Se si parte dall’accezione che “la legge Monti-Fornero è stata la più gigantesca operazione di cassa fatta sul sistema previdenziale italiano“, senza voler riconoscere che la stessa ha impedito che si perpetrasse ancora per molti anni il perverso meccanismo previdenziale produttore di forte iniquità generazionale, significa non essere obiettivi nelle valutazioni.
Se si continua a sostenere che il nostro è “un sistema giudicato sostenibile da tutte le istituzioni nazionali ed internazionali“, senza al contempo evidenziare che tale sostenibilità, anziché basarsi sull’equilibrio attuariale delle prestazioni e delle contribuzioni, si poggia fortemente sulla fiscalità collettiva, significa dare un’informativa totalmente distorta in ordine ai meccanismi di finanziamento della previdenza italiana. Se ci si limita a valutazioni di sostenibilità (oltretutto di medio termine), senza contemporaneamente evidenziare le criticità in termini di equità ed adeguatezza, intercategoriale e intergenerazionale, si trasmette un’informazione distorta e, come tale, inutile se non dannosa per effettuare corrette considerazioni.
Se si sottace il fatto che la Legge Fornero, per quanto perfettibile, è stata resa necessaria da una sconsiderata gestione del sistema previdenziale degli ultimi quarant’anni, che ha visto il sistema sindacale compartecipe delle scelte politiche effettuate, significa voler negare le proprie responsabilità, ancorché attenuate dalla necessaria storicizzazione. E tutto ciò è un peccato, perché rischia di far apparire strumentali proposte e obiettivi che, almeno in parte, meritano di essere conseguiti, salvo eventualmente discutere sulle metodologie di perseguimento.
È infatti indubbia e condivisibile la necessità di “assicurare un trattamento pensionistico adeguato e dignitoso anche a chi svolge e ha svolto lavori saltuari, discontinui, con retribuzioni basse o è entrato tardi nel mercato del lavoro“, ma ciò, più che basarsi su sistemi obsoleti di tipo assistenzialistico, dovrebbe transitare attraverso una rivisitazione dei meccanismi di previdenza sociale, adattati ai nuovi dati demografici e di sviluppo economico, che tengano conto dell’allungamento della vita media, e alla necessità di integrare il trattamento economico con una crescita dei servizi alla persona.
Pensare di far fronte al problema dell’adeguatezza ragionando solo in termini di aumento del trattamento pensionistico significa non aver colto interamente l’entità del problema: vivere più a lungo comporta anche dover sostenere costi sanitari e di assistenza crescenti che non potranno essere colmati da un incremento dell’assegno pensionistico; da qui la necessità di ripensare un sistema di welfare integrato che affianchi al trattamento economico la garanzia di servizi il cui costo sarebbe ben superiore se sostenuto individualmente.
Giusto anche prevedere meccanismi che permettano l’adozione di contratti part-time per i lavoratori anziani, collegandoli all’assunzione di giovani lavoratori (ben venga quindi la norma della Legge di stabilità che introduce la possibilità, per coloro che sono vicini alla pensione, di trasformare il rapporto di lavoro subordinato da tempo pieno a tempo parziale, con copertura pensionistica figurativa e corresponsione al dipendente della contribuzione pensionistica), ma, al contempo, è doveroso richiamare l’attenzione sul fatto che l’accesso al mercato del lavoro non funziona come una porta girevole: ciò che si richiede non sono meramente persone, ma competenze, e queste possono prescindere dall’elemento anagrafico.
Sul tema della flessibilità – per fortuna non affrontato nella Legge di stabilità – i sindacati insistono sul ripristino di meccanismi di duttilità nell’accesso alla pensione, proponendo ancora una volta l’età minima di 62 anni oppure la possibilità di combinare età e contributi, ovvero il limite di 41 anni di contribuzione
Tali ipotesi, che di fatto ripropongono l’introduzione della pensione di anzianità e sulla quale ho espresso la mia contrarietà in precedenti interventi, oltre a muoversi in una direzione diametralmente opposta a quella suggerita in ambito internazionale (si veda il rapporto “Pensions at a glance 2015”) sembrano voler negare gli aspetti finanziari collegati all’allungamento della vita media.
È chiaro che eccezioni possono e devono essere rilevate, e in questo non posso che sostenere il fatto che l’attuale sistema previdenziale potrebbe facilmente essere adattato a metodologie di clusterizzazione dei lavoratori tali da identificare in maniera più puntuale i cosiddetti “lavori usuranti” e superare le anacronistiche tipologie attualmente riconosciute. Condivido infatti che “l’applicazione automatica dell’attesa di vita fa parti eguali tra diseguali: ad attività e condizioni di vita diverse corrispondono aspettative di vita differenti“.
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