«L’età di accesso alla pensione va stabilita sulla base dell’usura correlata a ciascun tipo di lavoro. Con il sistema contributivo, che mette in relazione l’assegno percepito all’aspettativa di vita, è la scelta più naturale». È la proposta di Titti Di Salvo, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera dei deputati e membro della commissione Lavoro. La legge di stabilità si è limitata a intervenire sulle pensioni con una settima salvaguardia degli esodati e con la proroga di Opzione Donna. Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha però promesso che con l’anno nuovo si inizierà a discutere di flessibilità in uscita.



Onorevole Di Salvo, che cosa ne pensa del modo in cui il governo sta affrontando il nodo pensioni?

La prima notizia è che c’è un impegno del governo a trattare i tema dell’uscita dal lavoro, superando le rigidità della legge Fornero. Nella legge di stabilità inoltre c’è la sperimentazione del part time, che va nella direzione di un’uscita diversa rispetto a quella determinata dalle condizioni attuali. Ma ci sono anche altre misure significative che riguardano la previdenza nella stessa manovra.



Quali?

È stata presa una decisione importante, quella cioè di intervenire sull’argomento previdenza attraverso la No Tax area che è stata aumentata già dal 2016. A ciò si sono aggiunte le misure che riguardano gli esodati e Opzione Donna, incluso il contatore per verificare quanto quest’ultimo strumento sia effettivamente utilizzato e quindi quali siano gli eventuali risparmi. Il capitolo pensioni è stato quindi messo al centro di alcune scelte già nel 2015, e non si è semplicemente aspettato il 2016. Mentre per l’anno nuovo c’è l’impegno a toccare la questione principale che riguarda la pensione flessibile.



Lei in concreto come ritiene che vada attuata la flessibilità pensionistica?

Il modello previsto è l’uscita anticipata rispetto alla legge Fornero, con una leggera penalità fino a un massimo dell’8%. Nella proposta che si sta discutendo in commissione Lavoro, uno degli elementi centrali è quello di considerare che non tutti i lavori sono uguali. La modalità in cui si svolge un lavoro e la fatica che richiede sono diverse, e quindi definiscono un livello di usura della persona che è differente.

L’usura correlata al lavoro può essere misurata scientificamente?

Non solo è possibile, ma è già stato fatto. Uno studio del Mef, e altre ricerche altrettanto significative realizzate in Francia, hanno indagato la vita media delle persone sulla base della professione svolta. Sono emerse delle aspettative di vita molto diverse a seconda del lavoro. È un dato molto importante, soprattutto se applicato al sistema contributivo.

Perché?

Il nuovo sistema di calcolo delle pensioni prevede che i contributi versati nel corso della vita siano suddivisi per il numero di anni tra il momento in cui ci si ritira dal lavoro e l’aspettativa di vita media. Sulla base di questo calcolo si determina la rendita pensionistica. Per questo è importante tenere conto del fatto che l’aspettativa di vita cambia a seconda del lavoro svolto. La vita media di un dirigente d’impresa è di sette anni più lunga di quella di un operaio. Immaginare che l’uscita dal lavoro sia differente a seconda della professione svolta è quindi una scelta molto coerente con il sistema contributivo.

 

Ritiene che vada individuato anche uno strumento ad hoc per le donne che si sono occupate per anni della famiglia?

Sì. I lavori di cura, cioè il tempo dedicato ai familiari, che oggi generalmente è sulle spalle delle donne, andrebbe riconosciuto in termini previdenziali. I periodi di maternità e di lavoro di cura dovrebbero essere più pesanti e consentire un’uscita anticipata.

 

Lei che cosa propone invece per i lavoratori precoci?

Va consentita loro l’uscita dal sistema con 41 anni di contributi, anche perché chi ha cominciato a lavorare a 15 anni si è inserito inizialmente con un lavoro manuale.

 

(Pietro Vernizzi)