Il contratto a tutele crescenti entrerà in vigore solo a fine mese con la pubblicazione definitiva dei decreti. La proposta della sinistra di reintroduzione dell’articolo 18 per i licenziamenti collettivi dovrebbe scontrarsi con la fermezza dell’esecutivo che non può permettersi né una sconfitta politica, né di introdurre nel provvedimento una palese violazione della parità di diritti che aprirebbe un’autostrada a ricorsi tesi a fare ritardare il provvedimento nel suo complesso.
Nel Paese reale si assiste invece a un dibattito sui contratti da applicare e a una valutazione di cosa diventa conveniente per le imprese. Il combinato disposto fra sgravi contributivi e norme di gestione del contratto a tutele crescenti farà si che assisteremo a un passaggio di massa da forme contrattuali precedentemente utilizzate al nuovo contratto. Ciò non riguarderà solo casi “alla Marchionne” di nuove assunzioni operate con contratti interinali che diventeranno stabili solo dopo la pubblicazione del nuovo decreto. Anche settori che oggi utilizzavano altre tipologie contrattuali (dai servizi alla persona al commercio o nella logistica), per ottenere una base salariale compatibile con il mercato e una flessibilità organizzativa e gestionale funzionale al ciclo produttivo, hanno previsto di operare una migrazione contrattuale verso il contratto a tutele crescenti.
Come noto, il nuovo contratto permette di avere certezza sui costi di un’eventuale rottura del rapporto e quindi di affrontare contrazioni programmate o subite nella produzione con la rimodulazione degli occupati. A fronte di questa certezza, vi sono tre annualità di sgravi contributivi che rendono questa tipologia contrattuale la più conveniente dal punto di vista prettamente economico rispetto ai contratti “di flessibilità” utilizzati precedentemente.
Tale effetto è uno degli obiettivi perseguiti dal Governo. Il contratto a tutele crescenti si pone concretamente l’obiettivo di fare aumentare la qualità contrattuale di molti lavoratori che oggi non godono di tutele. Supera di fatto il dualismo che ha caratterizzato gli ultimi anni del mercato del lavoro italiano e assicura un contratto che estende le tutele in caso di difficoltà economiche a lavoratori che prima erano senza copertura. A fronte di questo obiettivo certamente condivisibile, vi è il rischio che tale strumento venga oggi investito di una nuova versione di ideologia del lavoro, che sostiene che deve diventare il solo contratto di lavoro subordinato ammesso.
Nel breve periodo avremo, soprattutto per il sostegno della convenienza economica, un forte effetto di sostituzione. Assisteremo all’applicazione del nuovo contratto anche a molti lavoratori già occupati. Avremo anche nuova occupazione perché alcune imprese hanno atteso le nuove norme per procedere alle assunzioni. Ma la legislazione del lavoro crea un migliore mercato del lavoro: solo la ripresa economica assicurerà nuova occupazione.
Come abbiamo richiamato nelle settimane passate, un effetto indesiderato sarà quello di spiazzare completamente i contratti di apprendistato. Senza una nuova normativa che favorisca una diminuzione del costo e degli oneri burocratici, l’apprendistato, già meno utilizzato di quanto servirebbe, sarà fuori mercato per le imprese. Su questo il governo ha avviato una riflessione e ci auguriamo sia in grado in tempi brevi di intervenire rilanciando il rapporto di apprendistato come canale privilegiato del passaggio scuola-lavoro. Dove però riaffiora la volontà ideologica di poter ridurre a un’unica forma contrattuale i rapporti di lavoro è nella scelta di penalizzare tutte le altre forme di contratto flessibile, dal contratto a termine, alle partite Iva, al contratto a chiamata, ecc.
La complessità dei diversi settori economici ha cercato di adattare le forme contrattuali esistenti alle necessità di nuovi cicli produttivi. La fatica richiesta è quella di disegnare un sistema di tutele che sia applicabile a tutte le forme contrattuali che dovrebbero cercare di seguire le esigenze che si pongono sul mercato. La crescita dell’economia dei servizi si è certamente alimentata dell’abuso di forme contrattuali nei rapporti di lavoro confondendo flessibilità con precarietà e sfruttamento. Pensare però che sia possibile ridurre tutto a una formula contrattuale, come se il mutamento dell’economia non ci fosse e si possa tornare al modello industriale, si dimostrerebbe un’illusione e riaprirebbe le porte a nuovi abusi.
Solo ponendo al centro l’universalizzazione delle tutele si può ridisegnare il sistema contrattuale ponendo fine alle situazioni di precarietà, tutele sostenute da una rete di workfare innovativa e che è indispensabile per un mercato del lavoro efficiente ed efficace, che sostenga la ripresa economica senza scordare che centrale nel lavoro resta la persona.