Approvati i primi due decreti attuativi del Jobs Act, rileviamo alcuni aspetti critici nel modo in cui è concepito il contratto di ricollocazione, che dovrebbe guardare prima di tutto alle società di outplacement in quanto specialiste del supporto alla ricollocazione, ma che rischia di rivelarsi appannaggio delle sole Agenzie per il lavoro generaliste e di intermediazione. La versione definitiva del decreto prevede infatti che l’intero pagamento della prestazione sia a risultato conseguito, escludendo de facto dalla partita le società di outplacement.
Va precisato, infatti, che il processo di outplacement non è una semplice attività di intermediazione su posizioni aperte, ma parte dalla persona lavorando in modo personalizzato e intensivo per potenziarla e supportarla in tutte le attività che servono per rientrare nel mondo del lavoro. Questo vuol dire dedicare consulenti del corretto livello professionale a seconda di quello della persona, investire in tecnologie e risorse e, soprattutto, dedicare a ogni persona tutto il tempo che le serve per arrivare al risultato finale.
Il percorso di outplacement si basa sulla definizione di un progetto professionale realizzabile e realistico che viene concordato nella fase iniziale con un accurato bilancio delle competenze, per poi perfezionare tutti gli strumenti che servono a mettersi in contatto con i vari canali di entrata nel mondo del lavoro (CV, profili social, autocandidature, contatto con società di ricerca e selezione, presidio del web e dei luoghi della rete dove vale la pena interagire per allargare il proprio network), effettuando simulazioni di colloqui, workshop, seminari, interazioni di gruppo. Tutto questo, accompagnati costantemente da uno o due consulenti dedicati, affiancati da vari professionisti specializzati nelle varie attività.
Si deduce dunque che, pur condividendo in generale un impianto ispirato dal concetto di premialità a risultato, sarebbe stata necessaria però prevederne un’erogazione in tranche seguendo lo sviluppo del servizio nel tempo. Altrimenti il rischio è che ne soffrano proprio le persone più svantaggiate, quelle con meno competenze o quelle di età più alta, sulle quali serve lavorare di più e più a lungo, ed è impensabile che per mesi non si riceva alcun compenso. Senza pensare alle persone che si ritireranno dal percorso dopo averne usufruito per un periodo, o che demorderanno prima del risultato finale, risultato che con le metodologie di outplacement si attesta intorno all’80%, mentre con attività di job matching non supera il 25%.
A proposito di risultato finale: questo non è solo l’impiego subordinato, ma anche l’attività di freelance come consulente o la start-up, che al momento non è contemplata dal decreto, ma che da tempo rappresenta uno sbocco professionale soprattutto per i manager over 50 con competenze spendibili nella microimprenditorialità. Con il contratto di ricollocazione così concepito, dunque, il Paese, proprio nel momento in cui vuole ispirarsi a un principio di flexsecurity, rinuncia alle competenze delle società specializzate nel supporto alla ricollocazione, società che da 20 anni riportano appunto nel mercato del lavoro circa l’80% delle persone a loro affidate in 6/7 mesi medi.
È un’occasione sprecata se il contratto di ricollocazione si riduce all’esclusivo matching fra domanda e offerta disponibile, perché troppi lavoratori disoccupati resteranno esclusi dal buon esito, lavoratori che hanno bisogno di un supporto prolungato, personalizzato e dedicato.