Se per il 20 febbraio il Governo pare pronto ad approvare nuovi decreti attuativi sul Jobs Act, tra cui quello sulla semplificazione delle forme contrattuali, ancora nulla si muove sul fronte delle politiche attive, settore nel quale è stata annunciata la costituzione di una Agenzia nazionale per l’occupazione, un ente che avrebbe il compito di gestire i servizi per l’impiego, le politiche attive e l’Aspi, ovvero l’indennità di disoccupazione. In buona sostanza, con il Jobs Act chi perde il lavoro o chi è già disoccupato dovrà interfacciarsi con i servizi predisposti da questa Agenzia. Si capisce quindi che avrà un ruolo cruciale, specialmente per rendere i servizi fruibili non solo dai Centri per l’impiego pubblici, ma anche da operatori privati come le Agenzie per il lavoro. Abbiamo fatto quindi il punto della situazione con Antonio Bonardo, Direttore Public Affairs di Gi Group.



L’avvio dell’attività dell’Agenzia nazionale per l’occupazione sembra più che mai urgente. Eppure il decreto attuativo in materia, secondo quanto dichiarato dal ministro Poletti, non arriverà prima di maggio…

Sicuramente l’urgenza c’è, tuttavia ci troviamo in un momento in cui è in corso una riforma costituzionale, la cui approvazione è essenziale per il buon funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’occupazione e delle politiche attive.



In che modo le due cose sono collegate?

Attualmente le politiche attive sono in capo alle Regioni e la riforma costituzionale, se avrà il via libera parlamentare, porterà il loro passaggio allo Stato centrale, cosicché possiamo ritrovarci con un’Agenzia nazionale per l’occupazione in grado di affrontare il compito che l’aspetta. Altrimenti, con il quadro costituzionale attuale, rischieremmo di avere un decreto attuativo buono sulla carta, ma di fatto “inutile”. Quindi, è vero che l’attesa è un peccato, però meglio aspettare qualche mese se questo vuol dire arrivare a un nuovo disegno dove lo Stato riprende un potere e poi le Regioni diventano un ente attuatore di direttive molto precise e cogenti. Questo per evitare di avere differenze sui servizi offerti rispetto alla regione in cui si vive.



Tuttavia, il rischio di avere una “pianificazione” dal centro è che non si riesca a tener conto di tutte le peculiarità dei mercati del lavoro locali, applicando una stessa ricetta indifferenziata su tutto il territorio…

In realtà, bisognerà vedere quale sarà la vera struttura dell’Agenzia, perché sembra che l’idea sia quella di affiancare all’ente centrale, che gestisce la governance, un livello regionale di attuazione. Si è cercato di guardare in questo senso all’esperienza tedesca. 

Il sistema attuale, con le politiche attive affidate alle Regioni, è realmente così fallimentare?

Dal 2001, anno della riforma del Titolo V della Costituzione, poche regioni, in particolare la Lombardia, sono state capaci di affrontare la sfida di avere in mano questo potere. Tanto è vero che Garanzia Giovani, che doveva essere una prima esperienza di politiche attive governata centralmente ma attuata localmente, è clamorosamente fallita proprio perché le regioni, nella maggioranza dei casi, non sono in grado, non hanno le competenze professionali, per creare il sistema delle politiche attive. 

Se già bisogna attendere il decreto attuativo, i tempi di messa in regime del nuovo sistema non rischiano di creare un’attesa ancora più lunga?

Io mi auguro che l’Agenzia non cominci facendo tabula rasa, ma prendendo le buone pratiche che il sistema federale ha comunque consentito che nascessero. Queste buone pratiche possono diventare il punto da cui partire, attuandole anche da altre parti, per far nascere il sistema delle politiche attive. L’ideale sarebbe se l’Agenzia fosse in grado di prendere il sistema lombardo ed estenderlo a tutta l’Italia. Se si riuscisse a fare questo passaggio, già in tempi molto rapidi potremmo costituire una prima infrastruttura di riferimento per il sistema di politiche attive in tutta Italia, ovviamente migliorabile nel tempo. Non bisogna dimenticare che l’unica regione in cui Garanzia Giovani ha dato qualche risultato operativo è la Lombardia, che è riuscita a prendere lo schema nazionale e a ribaltarlo nel sistema Dote unica lavoro già operativo.

 

Una volta che il sistema sarà operativo, pubblico e privato dovranno collaborare per fornire i servizi necessari ai cittadini. Sarà possibile?

Anche in questo campo bisogna citare il caso lombardo, perché è stata proposta una collaborazione competitiva, nel senso che il cittadino è stato messo nelle condizioni di avvalersi dell’operatore pubblico o di quello privato a sua scelta, col fatto che gli viene assegnato un voucher. Ritengo che sia importante che la definizione del voucher, come pure la profilazione dei candidati, venga organizzata da un sistema pubblico, che può essere poi interpellato grazie a un’infrastruttura informatica, così da stabilire il livello di servizio di cui la persona ha bisogno. 

 

In questo senso, di quali fattori bisognerebbe tenere conto?

Principalmente ne vanno incrociati quattro: età, sesso, titolo di studio e distanza temporale dal mercato del lavoro. Io ritengo che sarebbe meglio se il pubblico – anche per la tradizione italiana per cui normalmente è inefficace, incapace di gestire un’operatività – si mantenesse più su un livello di governance, di indirizzo e di impostazione del sistema, e che poi vengano date le prerogative sul campo per operare a chi sa dimostrare di poter centrare meglio gli obiettivi che il pubblico pone. Meglio questo sistema piuttosto che stabilire una filiera obbligatoria che vede magari prima l’uso del pubblico e poi del privato, con il rischio che diventi magari un ostacolo a centrare l’obiettivo, che è aiutare le persone che hanno bisogno a ritrovare un lavoro.

 

Voi privati siete pronti ad accettare la sfida, anche con il pagamento del voucher solo a risultato ottenuto?

Abbiamo segnalato a chi sta lavorando in sede parlamentare alla redazione dei pareri che devono essere dati ai decreti attuativi prima che vengano emanati in via definitiva che un voucher totalmente a risultato rischia di essere inadeguato, soprattutto per i lavoratori. 

 

Perché?

Perché se il pagamento del voucher è solo a risultato esperienze sia italiane che estere dimostrano la presenza del rischio che gli operatori si concentrino a supportare i lavoratori che hanno più probabilità di ricollocarsi, trascurando gli altri che magari hanno più bisogno di aiuto. Si tratta dell’effetto creaming. 

 

Come evitare allora questo rischio?

A nostro avviso, anche in virtù dell’esperienza fatta con Dote unica lavoro, è necessario che ci sia un pagamento prevalentemente a risultato, dove quindi il risultato garantisca la parte maggiore di riscossione del voucher, ma dove venga comunque compresa una parte fissa remunerata a processo, in modo che venga garantito un minimo livello di assistenza e di supporto a tutti i lavoratori, compresa la formazione, che a volte si rende necessaria per una riqualificazione delle competenze. È importante quindi distinguere le fasce di bisogno, come avviene in Lombardia, dove sono tre. 

 

Perché dice che è importante questa “selezione”?

Per ogni fascia di bisogno occorre distinguere i panel di servizi che è necessario riconoscere anche a processo, proprio per non lasciare indietro nessuno. Per esempio, in Lombardia vengono definiti voucher differenziati per entità, dove anche la fascia fissa si differenzia per valore perché, come dicevo prima, il lavoratore viene classificato secondo tre differenti fasce di bisogno. È poi importante nel tempo andare sempre a vedere e capire quali sono queste fasce di bisogno e i servizi che necessitano, così com’è importante monitorare gli output da un punto di vista di risultati ottenuti e renderli pubblici, cosicché il cittadino abbia anche le informazioni su chi è l’operatore che rispetto alle sue esigenze è più in grado di dargli un aiuto. 

 

In che modo questi dati potranno essere utili agli italiani?

Se nel tempo ci saranno operatori specializzati su profili, settori, aree, livelli di bisogno, ecc., attraverso i dati pubblici i cittadini avranno in mano molte informazioni per scegliere l’operatore che fa per loro.

 

Recentemente lei ha evidenziato come sia importante scegliere la persona che dovrà guidare l’Agenzia nazionale per l’occupazione. Perché ha posto tanta enfasi su questo punto?

Sulle scelte riguardanti l’Agenzia, e quindi anche di chi la guiderà, ci giochiamo di fatto il successo della riforma del mercato del lavoro. Dobbiamo tenere conto che se prima la protezione del lavoratore era l’articolo 18, oggi tutto è in mano alle politiche attive. L’Agenzia avrà quindi un ruolo cruciale, non può fallire. Di conseguenza il manager che la guiderà sarà determinante. Io ho suggerito un metodo, perché è importante che su questa scelta non si usino logiche politiche nel senso deleterio del termine, ma venga utilizzato un criterio di competenza. Provocatoriamente ho proposto di fare un bando pubblico in cui chiunque possa candidarsi, attraverso l’esposizione di un progetto di come verrebbe organizzata l’Agenzia e di quali sono le proprie esperienze maturate. 

 

Perché ha pensato proprio a questo?

In modo che, come succede in un’azienda, ci possa essere un vaglio, una selezione di rango anche internazionale. Questo stesso bando potrebbe essere internazionale, così da poterci avvalere di competenze di chi ha fatto questo tipo di attività in Inghilterra, piuttosto che in Olanda o in Germania, e quindi portare in Italia un know-how che nel nostro Paese è minimale, in modo che ci sia una persona che sia realmente dotata di competenze professionali, in grado di portare valore aggiunto per il sistema. Ripeto, non possiamo fallire.

 

(Lorenzo Torrisi)

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