«Una riforma delle pensioni è un tema complesso, che va attuato certamente nell’ottica della flessibilità di cui ha parlato lo stesso ministro Giuliano Poletti. Ma che è imprescindibile da altri aspetti ugualmente importanti come le differenze tra tipologie di lavoro, la valorizzazione del part-time e il fatto di ripensare il lavoro in rapporto alla cura». Lo afferma Luigino Bruni, professore di Economia politica all’Università di Lumsa di Roma.



In che modo è possibile riformare l’attuale sistema pensionistico?

Il sistema pensionistico deve continuare a evolvere. Con un Paese che invecchia e che ha pochi giovani, il sistema pensionistico classico pensato a metà del ‘900 quando avevamo un rapporto totalmente diverso tra giovani e anziani non è più sostenibile.



Come ritiene che vada cambiato?

Il primo punto è la flessibilità, rispetto a cui sono favorevole. Dobbiamo dare la possibilità a ogni lavoratore di decidere a quale età vuole smettere di lavorare, attraverso un compromesso tra reddito e anni di lavoro. Mi sembra molto importante ed è un segnale di libertà. Ciascuna persona arriva a 67 anni in condizioni di salute e familiari diverse. Alcuni dopo 40 anni di lavoro non vedono l’ora di ritirarsi, perché hanno svolto delle mansioni monotone e ripetitive. Un sistema previdenziale democratico e moderno deve contemplare dei piani di pensionamento personalizzati e non troppo standardizzati.



In che modo occorre distinguere per quanto riguarda le tipologie di lavoro?

Oggi noi abbiamo dei lavoratori che sono addetti alle macchine, guidano mezzi pesanti o svolgono altre mansioni rispetto a cui a 60 anni bisogna smettere. Richiedono infatti un livello di efficienza e di salute che un uomo oltre quell’età non ha più. Dobbiamo differenziare i tempi di pensionamento rispetto al tipo di lavoro.

Perché è importante il part-time?

Il lavoro oggi nei Paesi avanzati deve essere redistribuito. Il posti di lavoro sono scarsi perché grazie alla tecnologia tante mansioni sono svolte dalle macchine. Finché nei prossimi decenni non ci inventeremo altri lavori, dobbiamo capire che l’occupazione nella Pubblica amministrazione e nelle grandi imprese può essere riorganizzata incentivando fortemente il part-time per chi ha più di 50 anni. Non è possibile oggi tenere fuori dal mondo del lavoro milioni di giovani, e poi vedere persone completamente demotivate che lavorano fino a 67 anni.

 

In che senso parlava di ripensare il lavoro in rapporto alla cura?

Questo è un tema di cui si parla molto in Canada e negli Usa. Per cura si intendono dimensioni come il volontariato, il tempo dedicato alla famiglia e ad altre attività utili alla società. Durante la crisi la settimana lavorativa in America e in Europa è aumentata, anche perché spesso le imprese barattano il fatto di non delocalizzare con un aumento dell’orario dei loro dipendenti. Invece dobbiamo andare verso un paradigma in cui lavorino tutti ma un po’ meno, e in cui ogni essere umano adulto possa e debba offrire delle ore di cura alla sua comunità e alla sua famiglia.

 

In concreto come si farebbe?

La filosofa canadese Jennifer Nedelsky propone che nel pacchetto settimanale che una persona adulta offre alla società ci siano circa 30 ore di lavoro remunerato e 12 ore di lavoro di cura gratuito. Se noi continuiamo a riformare il lavoro sganciandolo dalla cura, attuiamo delle riforme molto parziali e miopi.

 

Come si calcolerebbero le 12 ore di cura?

Di questo si può discutere. A essere in gioco però è il meccanismo di stima e di biasimo sociale. A una persona che lavora per 80 ore alla settimana, ma che dedica zero ore alla cura della sua vita privata e della sua comunità, bisognerebbe rispondere che non la si stima perché non è una persona civilmente matura.

 

(Pietro Vernizzi)