Nei ministeri competenti (e all’Inps) si stanno iniziando a predisporre articolati su una nuova riforma della previdenza da inserire nella prossima Legge di stabilità. Le norme consisterebbero essenzialmente in: a) nuovi contributi di solidarietà per quelle che vengono chiamate le “pensioni d’oro”; b) flessibilità in uscita per coloro che desiderano andare in quiescenza prima dell’età ora prevista da quella che viene chiamata “legge Fornero”.



Prima che i lavori preparatori vadano troppo avanti, potrebbe essere utile fare alcune considerazioni. In primo luogo, non soltanto i teorici della neoeconomia ma studi Ocse, Fmi e Banca mondiale e numerose analisi di centri di ricerca internazionale documentano che nessun Paese reagisce bene a riforme della previdenza che si succedono anno dopo anno; esse generano ansietà e incertezza e riducono la credibilità della politica. Ciò influisce negativamente sulla produttività. Quindi, meglio esaminare a fondo, e con la pazienza e il tempo che ci vogliono, le alternative e approvare, una volta per tutte, un sistema che resti solido per diversi anni.



Per quanto attiene ai “contributi di solidarietà” in vigore, la sezione giurisdizionale del Veneto e del Lazio hanno già sollevato la questione di costituzionalità, rispettivamente il 16 gennaio e il 20 febbraio. Ora la materia è all’esame della Consulta. In passato già due volte la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali contributi del genere, poiché sono essenzialmente imposte che gravano su una unica categoria e le pensioni sono un “salario differito” che non può essere cambiato unilateralmente.

A questo aspetto in punta di diritto, occorre aggiungere che, secondo i calcoli de lavoce.info, perché il contributo di solidarietà comporti risparmi tali da potere aumentare, ad esempio, le pensioni più basse (da distinguere gli “assegni di solidarietà” a carico dell’erario e rispetto ai quali l’Inps ha la mera funzione di “ufficiale pagatore”), occorre mettere un “tetto” alle pensioni in essere a circa 2.500-3.000 lordi, innescando una protesta sociale non solo dai pochi “pensionati d’oro”, ma dai numerosi fruitori di pensioni medio-basse.



In materia di “flessibilità in uscita”, a ragione dell’invecchiamento della popolazione e della prospettiva di restare in pensione tra i 22 e i 25 anni con trattamenti il cui potere d’acquisto diminuisce anno dopo anno, saranno pochi coloro che chiederanno un pensionamento anticipato tale comunque da comportare una riduzione delle spettanze e delle prestazioni. Quindi, sono davvero di lana caprina i commenti dei tecnici della Commissione europea secondo cui la misura, se attuata, aggraverà la spesa pubblica almeno nel breve periodo (ma la ridurrebbe nel medio e lungo) facendo addirittura “saltare” i conti dell’Italia.

Secondo le mie stime, si tratterebbe al più di 1-2 miliardi l’anno nei primi anni, che verrebbero ampiamente recuperati nel medio termine poiché se e quando i lavoratori otterranno la “busta arancione” (più volte promessa dall’Inps) con i dettagli delle loro spettanze, ritarderanno il più possibile (se non sono autonomamente benestanti) il momento di andare in pensione.

È utile ricordare che l’eventuale flessibilità riguarderebbe la previdenza “pubblica” o “statale” perché gran parte della previdenza privata (i fondi pensione) ha già forti elementi di “flessibilità” in entrata. I fondi pensione di nuova generazione sono collegati, in larga misura, alla previdenza pubblica in uscita; quindi, sotto questo profilo, il futuro dei beneficiari, in termini di “età di uscita”, è legato a quello delle pensioni Inps.