Pirelli meno italiana e più cinese o Pirelli globale? Dopo l’annuncio dell’accordo con il colosso cinese China National Chemical Corporation, si sprecano le parole circa la svalutazione di un asset importante del nostro Paese. A parte il fatto che Pirelli è già anche piuttosto russa (la Camfin che controlla l’azienda con il 26,2% del capitale è al 50% dei russi della Rosfnet), ma davvero stanno così le cose? È innegabile che in questi anni l’economia italiana abbia visto in molti casi cedere parte del proprio know-how a economie più in salute della nostra. Ma è anche vero che cessioni di quote e accordi come quello tra Pirelli e ChemChina possono rappresentare un’opportunità per il Paese. L’azienda milanese ha imbarcato un socio con le spalle molto larghe e, grazie a questo, entra in un mercato sconfinato. Il nuovo socio cinese ha chiesto a Tronchetti Provera di rimanere alla guida per altri cinque anni insieme all’attuale management. Certo, tra cinque anni qualcosa potrebbe cambiare, ma non si capisce perché, per i più, il futuro sarebbe già scritto: l’Italia avrebbe perso un’altro asset. 



A parte il fatto che i problemi veri sono gli effetti che una proprietà può avere sulla produzione e, anche in questo caso, viene molto difficile pensare che gli stabilimenti italiani non abbiano un futuro; tuttavia sarà sempre più ordinario vedere le nostre aziende che si accordano con partner internazionali per finalità strategiche e commerciali: il mercato globale lo chiederà sempre di più. E l’accordo tra Pirelli e ChemChina ha un grosso valore strategico.



A commento di questa operazione, ecco le parole di Susanna Camusso: “La vendita di un pezzo pregiato del nostro sistema industriale, quale è Pirelli, a capitali stranieri non sarebbe in sé un dramma se il capitalismo italiano fosse in grado di reggere le sfide della competizione internazionale e il governo avesse una politica industriale capace di indirizzare e tutelare le energie produttive che pure esistono in Italia. La verità è che sia Confindustria che il governo preferiscono una competizione sui costi colpendo i diritti e i salari dei lavoratori, piuttosto che sfidare il mondo in termini di know-how, innovazione e buona occupazione”.



Il Segretario Generale della Cgil afferma cose vere in buona parte: per dirla tutta, un piano di politica industriale in Italia non c’è mai stato e la nostra economia soffre molto la competizione proprio per i ritardi – non solo della politica -, ma in particolare del suo sistema produttivo. Questo problema riguarda gran parte delle imprese italiane, ma non certamente quelle che riescono a competere sul mercato globale. Quindi, dire questo di Pirelli piuttosto che di Fiat – come è stato – pare un po’ azzardato. Ma resta il problema di fondo, di cui si parla poco: la nostre imprese pagano un importante gap di innovazione nei confronti dei loro competitors internazionali. Ce lo ricorda il World Economic Forum di Ginevra, per cui l’Italia – alla voce innovazione – è al 137° posto.

Ciò detto, il sindacato può chiamarsi fuori da questa situazione? Il sindacato è parte della politica economica o questa la fa il governo e il sindacato la subisce? Certo, di questi tempi il sindacato ne è poco partecipe. Ma non è stato così sino a oggi. Basta vedere cosa è stato fatto dal 2008: solo cassa integrazione, per cui nel 2011 (dato del ministero del Lavoro) sono stati spesi 24 miliardi di euro. La cassa integrazione – su cui il sindacato ha puntato parecchio – è una politica passiva, non è una politica che – per citare il Segretario della Cgil – permette di “sfidare il mondo in termini di know-how, innovazione e buona occupazione”. Ciò lo si fa con scelte coraggiose e non difendendo a oltranza interessi particolari, cosa che il sindacato fa da troppo tempo – e non certamente solo la Cgil. 

Il sindacato oggi è corresponsabile delle criticità dell’economia e del mercato in Italia. Ma suona di buon auspicio l’esortazione di Susanna Camusso a sfidare il mondo: è davvero ciò di cui la nostra impresa ha bisogno; perché in un passato, neanche troppo lontano, ci è davvero riuscita.

 

In colaborazione con www.think-in.it

Leggi anche

AMAZON USA, NO AL SINDACATO/ La sfida della rappresentanza nel capitalismo Big Tech