In questi giorni sono in corso le selezioni e i percorsi formativi destinati ai giovani che svolgeranno attività lavorativa presso i padiglioni di Expo 2015. Migliaia di ragazzi, venuti da tutta Italia (e non solo) in cerca di un’opportunità, perché il lavoro manca e quando non c’è un’ipotesi di impegno, di occupazione, di riconoscersi utili (oltre all’utilità della retribuzione) la vita diventa drammatica.
Voglio raccontare due atteggiamenti che ho visto in questi giovani candidati. Infatti, noi organizzazioni sindacali del settore della somministrazione abbiamo la possibilità di incontrare i partecipanti ai corsi di formazione professionale organizzati dalle Agenzie per il lavoro, al fine di illustrargli i diritti e doveri dei lavoratori “interinali”. Ovviamente, oltre a informarli delle prestazioni che attraverso la contrattazione abbiamo realizzato (sostegno alla maternità, contributi sanitari e odontoiatrici, accesso al credito e sostegno al reddito, ecc.), condividiamo sempre un pezzo della loro vita e della loro storia, in quanto la rappresentanza e la partecipazione è soprattutto questo.
Dicevo appunto due atteggiamenti. Da una parte ho visto giovani motivati, non ancora schiacciati dalla vita, non rassegnati, disposti anzi a fare sacrifici personali ed economici pur di cogliere un’occasione come quella di lavorare per Expo. Sì perché potrebbe essere anche un sacrificio economico per un ragazzo che viene da Bari o una ragazza che viene da Firenze, considerato che la retribuzione per un lavoratore in Expo deve coprire anche le spese di vitto e alloggio, oltre tutti gli oneri derivanti gli spostamenti urbani ed extraurbani. Come dire, non si fanno i soldi con Expo. Nonostante questo ho visto il desiderio di mettersi in gioco, di cogliere questa opportunità, anzi che proprio grazie a questa occasione possa poi innescarsi un percorso lavorativo meno precario.
Dall’altra parte ho visto giovani innanzitutto scettici, permeati da una diffidenza improduttiva e da una cultura del “dovuto” non più sostenibile e umanamente intollerabile. Giovani che si lamentano del perché il sindacato ha sottoscritto un accordo che non permette la fruizione delle ferie (attenzione la fruizione, perché ovviamente la maturazione e liquidazione economica del corrispettivo è garantita) per un’attività che dura 6 mesi, concentrata in estate e che l’Italia per i prossimi 50 anni non ospiterà più.
Io non credo che l’origine di questo atteggiamento sia il lamento, semmai esso è un esito. All’origine credo che ci sia una mancanza di realismo. Quel realismo che concepisce il sacrificio non come una fregatura, ma come l’ipotesi più umana percorribile in un dato momento storico; quel realismo che non si focalizza su tutti i limiti di una data situazione, ma cerca di valorizzarne il positivo e dai lì partire; quel realismo che ti spalanca gli occhi e non ti fa rimpiangere gli anni passati, ma ti pone davanti a un cambiamento glocale (sia nelle dinamiche internazionali che nelle relazioni di maggiore prossimità) con il quale dover fare i conti.
Occorre un’educazione a questo realismo, attraverso le parole della verità e testimoniando la giustizia, anche nel mondo del lavoro. Il sindacato, soprattutto un certo tipo di sindacato innamorato della responsabilità e della partecipazione, ha il grosso compito di tutelare i lavoratori, ma oggi tutelare i lavoratori non vuol dire solo garantirgli il giusto salario o una stabilità occupazionale, vuol dire anche educarli al lavoro, educarli al realismo.