Il Jobs Act, o almeno quanto di esso finora approvato, è sotto molti di vista “rivoluzionario”, produrrà certamente un possibile incremento dei contratti a tempo indeterminato e non si esclude un lieve miglioramento del mercato del lavoro. Grazie agli sgravi contributivi e alle modifiche legate al licenziamenti collettivi e individuali (Corte Costituzionale permettendo), gli strumenti approvati dovrebbero effettivamente porre il contratto a tutele crescenti (sulla carta identico a quello a tempo indeterminato, cambiano solo le modalità di risoluzione del contratto di lavoro) al centro delle scelte degli imprenditori e non a caso molte aziende di media-grande dimensione sembra che esprimano un’elevata aspettativa nei confronti della riforma.
Positivi anche gli interventi sui contratti atipici, tranne per il contratto a progetto. Infatti, l’eliminazione di questa formula potrebbe danneggiare quei collaboratori che non figurano nelle eccezioni previste (accordi sindacali, Pa, ecc.), non sono lavoratori subordinati e non vogliono aprire la partita Iva. Quanti siano non è semplice stimarlo, possiamo approssimativamente calcolare circa 50mila professionisti. Di questi, non tutti apriranno una partita Iva, alcuni preferiranno mantenere rapporti di collaborazione occasionale, anche nel caso si superi il massimale previsto dalla legge (pagando ovviamente i contributi aggiuntivi).
Tra le ombre di questa riforma, non si comprende perché creare una tutela per i collaboratori a progetto (Dis-Coll) quando poi si è scelto di cancellare questa forma di contratto, non si comprende perché non si è deciso di creare una tutela unica, una sorta di Universal Credit come nel Regno Unito a cui sommare il cumulo con le indennità di natura assicurativa, le quali sarebbe stato necessario rivedere per sostenere a livello complessivo la misura (si dava meno a tutti, ma si ampliava la platea).
A mio giudizio, tuttavia, qui sfugge il punto centrale di questa riforma: rilanciare l’occupazione. Purtroppo è qui che nasce il problema, già visto anche nei precedenti Governi Berlusconi, Monti e Letta, ovvero la costante convinzione che modificando le leggi sul lavoro automaticamente si crea lavoro: questa assunzione è smentita ovunque, eppure continua a essere accettata come “formula magica”, soprattutto dai giuslavoristi che portano avanti queste convinzioni senza analisi empiriche affidabili.
Nel campo dei sociologi e degli economisti finalmente si è certi che l’attuale disoccupazione è causata dalla mancanza della domanda aggregata, e se questa è la malattia la cura trovata (ovvero la regolamentazione) è sbagliata e si continua a sbagliare. In tal senso, per rilanciare l’occupazione, soprattutto giovanile, si doveva dar vita a un programma di liberalizzazioni molto più esteso, producendo un chiaro effetto di confitto tra insider/outsider del mercato del lavoro, non tanto nel lavoro subordinato, ma soprattutto in termini di ordini professionali.
Altro aspetto è quello di riconsiderare completamente l’assistenza ai non-autosufficienti per creare un circolo virtuoso a livello nazionale tra assistenza e collocazione dei soggetti più svantaggiati (in questo campo si sta arrivando al paradosso: con la scusa di maggiore professionalità per svolgere queste mansioni si arriva quasi alla laurea, giusto per ingrassare ancora di più gli enti formativi).
Sempre nel campo delle liberalizzazioni, si deve sfruttare il tempo di chiusura dei luoghi pubblici (musei, biblioteche e così via). Anche in questo campo, secondo i calcoli realizzati da Benedetta Cosmi (Liberalizzaci dal male, Rubettino 2012) si potrebbero creare in un solo anno 100mila posti di lavoro.
Ulteriore ambito che va certamente affrontato è il tema della mobilità occupazionale a livello internazionale. In proposito, uno dei motivi dell’attuale fallimento della Garanzia Giovani è quello di aver investito tanto in strumenti già presenti, come la formazione professionale (nonostante i pessimi risultati negli anni passati), e non nel rafforzamento del programma Eures (con appena il 2% delle risorse, che cosa ci si può fare?). E ancora i programmi di auto-impiego o auto-imprenditorialità sono in questo momento ancora fermi, la filiera del prestito bancario fa acqua da tutte le parti, mentre l’Italia grazie alle linee guida prodotte dalla Consob è riuscita a non far decollare ilcrowdfunding nel nostro Paese.
Infine, la grande riforma è quella della Pubblica amministrazione, e qui bisogna essere chiari: in questi anni la razionalizzazione delle risorse è consistita nel bloccare gli stipendi (mandando a quel paese qualsiasi principio di merito), fermare le assunzioni (così abbiamo lavoratori sempre più anziani, che parlano male inglese e spesso non sono forti neppure in informatica), non confermare i precari (spesso le migliori risorse della Pa). Questa è la razionalizzazione all’italiana e, mi si consenta il termine, da “para-culi”. E qui nasce anche l’incomprensione con l’Europa, che quando parla di razionalizzazione vorrebbe vedere un bel pacchetto di licenziamenti, mentre l’Italia offre le tre proposte di prima, che riducono (di poco) la spesa pubblica, ma è inevitabile che rischiano di produrre la peggiore Pubblica amministrazione al mondo, data l’impossibilità di ricambio generazionale.
Anche in questo campo è necessario una bel conflitto insider/outsider che, lo dico chiaramente al ministro Madia, non si risolve con il pre-pensionamento, perché con i soldi dei contribuenti si torna al termine utilizzato prima. I dirigenti pubblici devono licenziare e ridurre o sostituire l’organico e se non lo fanno devono essere sostituiti: questo non è un argomento da liberale, ma quello che avviene in qualsiasi Paese in cui l’obiettivo è garantire il miglior servizio possibile al contribuente.
In conclusione, ribadisco che il Jobs Act è uno strumento certamente interessante che stimolerà la domanda di lavoro, non tanto nel creare nuovi posti, ma nel dirottare occupazioni oggi precarie verso una stabilità. Tuttavia, è bene sottolineare che la riforma non basta per rilanciare il sistema-Paese.