Nell’ambito dei provvedimenti che formeranno l’attuazione complessiva del Jobs Act vi è la possibilità offerta anche alle organizzazioni sindacali di diventare Agenzie per il lavoro. L’idea riprende e rilancia una proposta che era già contenuta nella Legge Biagi, che riorganizzò le varie forme di Agenzie per il lavoro secondo i diversi livelli di servizi offerti: dalle agenzie generaliste che offrivano tutta la gamma di inserimenti lavorativi, dall’interinale al semplice orientamento, alle agenzie di outplacement a quelle di servizi di supporto alla ricollocazione lavorativa. Già in quell’ambito era prevista la possibilità, per le associazioni di rappresentanza sindacale e per quelle professionali riconosciute, di organizzare, al proprio interno o tramite strutture dedicate, ed erogare servizi per l’occupazione.



Quasi nessuna associazione ha sinora sfruttato questa opportunità, solo qualcuna ha sviluppato, tramite convenzioni con le agenzie riconosciute, sportelli di servizi al lavoro dedicati ai propri associati. La volontà espressa nei provvedimenti del Jobs Act assume però una nuova rilevanza. La riforma degli ammortizzatori sociali abbinata con la riforma dei servizi al lavoro apre infatti un nuovo capitolo per le politiche attive del lavoro. Chi perderà il lavoro avrà diritto a un sostegno economico che sarà però condizionato all’impegno nel cercare un nuovo lavoro tramite le agenzie accreditate e, in caso di rifiuto di nuove offerte di occupazione, sarà penalizzato nel sostegno al reddito. Ossia, ti do un reddito ma in cambio devi attivarti per ricollocarti e ci sono dei servizi ad hoc, pagati dallo Stato, per facilitare questo tuo impegno. Il contratto di ricollocazione va in questo senso e generalizza un sistema che in Lombardia è applicato da anni con buoni risultati di efficacia occupazionale.



Partecipare a questa nuova organizzazione dei servizi al lavoro dovrebbe essere quasi una scelta scontata per le organizzazioni che hanno nel loro dna la tutela dei lavoratori. Abbiamo invece assistito a un balletto di distinguo assolutamente inspiegabile. Dalle organizzazioni sindacali sono arrivati dei no in nome di pregiudizi incomprensibili. Da un lato si è sostenuto che i servizi deve fornirli solo lo Stato, ripetendo l’errore di scambiare un servizio pubblico solo con i servizi dello Stato. D’altro canto non sarà così e tutti ne sono coscienti. Senza una rete di collaborazione fra Centri pubblici per l’impiego e Agenzie per il lavoro non sarebbe possibile avviare un nuovo sistema di servizi per il lavoro capace di affrontare con professionalità l’incrocio fra domanda e offerta di lavoro.



Ma ciò che più emerge è una debolezza politica e culturale. Il sindacato già svolge servizi su delega pubblica. Tutto il sistema dei Caf che assicura i servizi fiscali e pensionistici rappresenta un’iniziativa che opera una sostituzione di quanto potrebbe fare lo Stato in altro modo. Il tema non è quindi la possibilità o libertà di fare servizi al posto di strutture statali. La scelta culturale è di accettare una responsabilità pubblica e si cerca di non affrontare questo problema. Vuole il sindacato occuparsi tramite proprie strutture di ricollocare chi resta senza lavoro, ma assumersi anche la responsabilità di escludere chi cerca di mantenere il sostegno al reddito senza attivarsi per cercare nuova occupazione?

È un salto di qualità politica che si propone e sfuggire a questa scelta è per rimanere organizzazioni che si pongono solo sul versante rivendicativo senza mai assumersi responsabilità di proporre scelte e gestirle. Questo chiamarsi fuori dalle responsabilità contraddice le capacità dimostrate da tante rappresentanze sindacali aziendali e territoriali di farsi carico dei problemi nuovi posti dalle trasformazioni economiche e che hanno saputo dar vita a contrattazioni originali pur di creare nuova occupazione e difendere i posti di lavoro.

Le centrali sindacali dovrebbero tornare a rileggere la propria storia. Nelle Camere del lavoro appena nate i lavoratori entravano per avere assistenza e difesa dei livelli salariali, per trovare difesa dei propri diritti ma anche per cercare lavoro. E la funzione di conoscere il mercato del lavoro locale, assicurare le riassunzioni per gli stagionali in agricoltura e indicare le nuove occasioni che si aprivano nella nascente industria era una capacità che favoriva la crescita della Camera del lavoro. Il forte sindacato dei ferrovieri non solo assicurava il lavoro, ma organizzava servizi per calmierare i prezzi e ha dato vita a una mutua di assistenza sanitaria che ancora oggi è operativa.

Avendo poi accettato che la crescita del sistema di welfare non avesse una gamba sussidiaria il sindacato ha fatto sì che questa tradizione si sia andata perdendo. Oggi si tratta di riprenderla perché senza il supporto sussidiario il sistema di workfare che si vuole introdurre sarebbe umanamente più povero e anche economicamente meno sostenibile.

Solo dalla Cisl sono venute aperture in questo senso. Anche se però abbastanza timide. Ci vuole sicuramente coraggio ad accettare questa nuova sfida. Mettere da parte l’idea che il compito del sindacato sia solo rivendicativo è una sfida pesante. Mettersi in gioco con la propria responsabilità per dimostrare che per il diritto al lavoro si lotta, ma si può anche costruire strutture di impresa sociale non profit capaci di lavorare per questi diritti, apre una nuova stagione per un sindacato che rinnova la propria cultura, le proprie strutture e contribuisce a creare una società civile fonte di corpi intermedi che si confrontano con le nuove sfide dei diritti dei lavoratori.

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