Da venerdì 20 febbraio, giorno in cui è stato presentato lo schema di decreto legislativo sul riordino delle tipologie contrattuali, ho scoperto che le collaborazioni coordinate continuative a progetto vantano un numero elevatissimo di tifosi. Infatti, anche su queste pagine, si sono consumate pagine di accusa contro l’abolizione di tale tipologia contrattuale. Oggi desidero spezzare una lancia a favore dell’abolizione (parziale) del contratto a progetto.



È chiaro che la lettura del provvedimento non deve essere settoriale, ma tenere in considerazione che è stato introdotto un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con un forte incentivo economico (lo sgravio contributivo totale per le assunzioni fatte nel 2015). Non esagero se affermo che il contratto a progetto oggi rappresenta la tipologia contrattuale più precaria presente nel nostro ordinamento. Spesso e volentieri viene applicato impropriamente, in quanto nella stragrande maggioranza dei casi le attività svolte dai collaboratori sono riconducibili al lavoro dipendente, nonostante sia formalmente un rapporto di lavoro autonomo. Inoltre, il collaboratore non ha diritto alla maturazione di ferie, permessi, tfr e mensilità aggiuntive, percepisce un’irrisoria indennità di malattia, oltre a non avere particolari vincoli al recesso da parte del committente. 



Il compenso, pur essendo previsto dalla legge 92/2012, nella stragrande maggioranza dei casi è invece ben al di sotto dei livelli retributivi minimi dei lavoratori subordinati che svolgono attività analoghe a quelle del collaboratore. Senza parlare di quanto ridicole siano spesso le descrizioni del progetto e l’individuazione del risultato oggettivamente rilevabile che l’attività deve comportare. 

In sostanza, il contratto di collaborazione coordinata continuativa a progetto non solo è la forma contrattuale meno tutelata dalla normativa vigente, ma anche quella più abusata. Se i collaboratori impiegati fossero tutti professionisti o alte professionalità, non c’è dubbio che avrebbero la possibilità e la forza di esercitare un potere contrattuale individuale nei confronti del committente, così da sopperire alle deficienze normative mediante la negoziazione all’atto della stipula del contratto. La realtà però è un’altra cosa. 



La realtà è costituita da lavoratori assunti con contratti a progetto per svolgere mansioni strettamente riconducibili al lavoro dipendente, senza però beneficiare delle relative tutele economiche e normative. Lo schema di decreto prevede dunque che non potranno più essere sottoscritti contratti a progetto e, comunque, i contratti in vigore dovranno essere trasformati in contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti a partire dal 1° gennaio 2016. Tale disposizione non trova applicazione: nella Pubblica amministrazione, in attesa del riordino del settore che prevederà anche una ridefinizione dei rapporti di lavoro (si spera); nelle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali; per lo svolgimento della funzione di amministrazione e controllo di società, collegi e commissioni; nelle società sportive affiliate al Coni; infine, potranno comunque essere stipulati contratti a progetto laddove questi vengono regolamentati normativamente ed economicamente da accordi collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Quest’ultima disposizione chiude lo spazio a ogni possibile obiezione. Perché a fronte delle esigenze e particolarità individuate in un dato settore, potranno essere avviati contratti a progetto (pur non rientrando nei casi precedenti), nel momento in cui verrà sottoscritto un accordo sindacale che regolamenti in termini collettivi il rapporto di lavoro. Si troverà quindi una sintesi tra l’esigenza delle aziende di avere una tipologia contrattuale adatta alla specifica attività lavorativa di riferimento, senza però lasciare il lavoratore in balia della negoziazione individuale, o come dice saggiamente papa Francesco: “Tu cerchi lavoro? Vieni, vieni in questa ditta”. 11 ore, 10 ore di lavoro, 600 euro. “Ti piace? No? Vattene a casa”. 

Ricondurre l’utilizzo delle collaborazioni a progetto alla contrattazione collettiva, vuol dire limitare il ricatto per le fasce lavorative più deboli, senza precludere nessuna possibilità di assunzione alle azienda e ai professionisti.

Leggi anche

LICENZIAMENTI/ Il nuovo colpo al Jobs Act passa dall'indennità per vizi formaliJOBS ACT/ Il problema irrisolto dopo la "vittoria" della Cgil a StrasburgoJOBS ACT/ Il rischio di un'altra bocciatura della Corte Costituzionale