Qual è il migliore augurio che si possa formulare alle donne per festeggiare l’8 marzo, la festa della donna? Secondo i più, non ci sono dubbi che sia il raggiungimento della piena parità dei sessi. Una parità anzitutto lavorativa: nel 2014, da dati Istat, il tasso di occupazione femminile nel nostro Paese ha raggiunto il 46,8%, in crescita di 0,3 punti rispetto al 2013. Un passo in avanti, sia pure microscopico, considerando che, sempre secondo l’Istat, sul totale degli occupati (poco più di 22 milioni) le donne sono aumentate dello 0,6% in un anno (ma a fronte di un incremento per gli uomini dello 0,2%). Ma la parità rivendicata è anche e soprattutto retributiva: a parità di incarico, il divario tra gli stipendi maschili e quelli femminili secondo l’Eurostat sfiora nel nostro Paese il 45%, e si traduce in una corrispondente disparità pensionistica: al momento di ritirarsi, l’assegno mensile previsto per uomini e donne differisce del 30% a vantaggio dei primi.
Alla parità retributiva fa eco la parità nell’accesso alle posizioni di responsabilità: e qui si attendono ancora gli effetti della legge Golfo-Mosca, che ha obbligato le società quotate a inserire membri femminili nei loro consigli di amministrazione per almeno un quinto dei componenti. La speranza dei sostenitori era che si verificasse un effetto a cascata, in grado di portare le donne in posizioni di responsabilità: proprio quelle posizioni da cui, secondo altri, sarebbe invece stato opportuno partire per realizzare un vero cambiamento organizzativo, demandato al middle management molto più che ai ruoli apicali.
A questo tradizionale fronte si è unito nei giorni scorsi anche quello grammaticale, con un evento organizzato lo scorso 5 marzo dalla Presidenza della Camera, che ha sostenuto – con gli auspici dell’Accademia della Crusca – l’opportunità di declinare al femminile tutti i sostantivi maschili riferiti a professioni e incarichi: e quindi largo alla ministra, alla prefetta, alla presidente… Una battaglia simbolica, che sottende però, secondo i suoi sostenitori, una sostanza reale: la necessità di superare l’equivalenza tra genere maschile e potere, che porta a privilegiare il primo nell’utilizzo dei termini.
In realtà, per molti dei ruoli che oggi le donne occupate si trovano a rivestire, si tratta di un falso problema. E questo non solo perché i mestieri preesistenti, in particolare nel settore dipendente e nel contesto aziendale, assumono sempre più denominazioni anglofone, che superano il problema di genere – dalla contabile si passa all’accountant, dall’addetta acquisti alla buyer, dalla responsabile di prodotto alla product manager -, ma perché a questi mestieri si affiancano sempre più nuovi lavori, nati in Rete o con la Rete cresciuti, e particolarmente congeniali alle donne.
Come ha fatto rilevare di recente Giampaolo Colletti, sono soprattutto le donne ad aver colto le opportunità offerte da Internet per inventarsi o reinventarsi professionalmente, diventando “Wwwworkers”, aprendo nuove imprese, oppure reinterpretando in chiave innovativa le loro precedenti attività. Si tratta di attività che potevano avere o non avere un nome al femminile – la fioraia, la traduttrice, ma anche la commerciante, l’imprenditrice -, ma la cui sostanza non risiede certamente nella loro desinenza, bensì nel coraggio e nella determinazione delle donne che le hanno avviate. Donne spesso costrette dalla crisi, da eventi traumatici (come il terremoto in Emilia), oppure del tutto naturali, come la maternità, ancora reietta nel mondo lavorativo.
L’impressione è che, piuttosto che cambiare nome ai vecchi mestieri, insomma, sia necessario fare largo ai nuovi: a un nuovo modo di concepire il lavoro in sé, a misura di donna – e quindi di bambino, e di famiglia. In attesa che provvedimenti come le quote rosa nei Cda producano gli effetti sperati (se mai ciò accadrà), molto resta da fare su fronti più prossimi, eppure più decisivi. Lo smart working, la più innovativa e potenzialmente dirompente tra tutte le misure in discussione, non ha a oggi trovato posto nel decreto legislativo destinato alla conciliazione tra vita e lavoro, e non ce n’è traccia nel Jobs Act. Eppure, oltre a facilitare la conciliazione, in questo modo si aumenterebbe la produttività e si ridurrebbero i costi delle postazioni fisse di lavoro.
Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, solo l’8% delle aziende italiane ha messo in campo un’organizzazione lavorativa realmente smart, consentendo ai dipendenti – a prescindere dalla mansione, dal settore, dal livello inquadramentale e dalla tipologia contrattuale – di svolgere la loro attività da remoto, concentrandosi sugli obiettivi piuttosto che sulla presenza in ufficio. Per avere un termine di paragone, basti pensare che, stando alle stime rese note da Alessia Mosca – firmataria lo scorso anno, insieme a Irene Tinagli e a Barbara Saltamartini, di un progetto di legge sul tema -, si applicherebbe ad almeno il 40% delle mansioni dei lavoratori dipendenti.
Ecco, se un augurio si può fare alle donne per la loro festa, quest’anno, è quello che si realizzi il prima possibile davanti ai loro occhi il cambiamento nell’organizzazione del lavoro che hanno atteso, voluto, guidato: per loro stesse, certamente, ma per tutti i lavoratori, a prescindere – stavolta è il caso di dirlo – dal genere.