Con un comunicato del 3 marzo, la Cgil chiede al Governo “di aprire al più presto un tavolo per cambiare radicalmente la legge Fornero […] introducendo meccanismi di flessibilità, ma senza prevedere nuovi tagli agli assegni previdenziali”. Il sindacato, rilevando la necessità di “abbassare le soglie di età in cui è possibile andare in pensione, poiché quelle attualmente previste sono palesemente insostenibili”, ribadisce che l’aumento di flessibilità  non può tradursi in “un ulteriore taglio alla consistenza degli assegni, e quindi di un’operazione pagata interamente dai lavoratori”. In ultimo sottolinea la necessità di modificare “l’impianto rigido e punitivo della legge, anche alla luce della irriducibile diversità dei lavori cui questa, invece, si applica in modo uniforme”.



Sul punto, non può non constatarsi che, ancora una volta, le tematiche previdenziali sono affrontate con estrema approssimazione e sviluppate con evidenti obiettivi propagandistici piuttosto che nell’interesse proprio dei “lavoratori” cui il sindacato in primis dovrebbe rivolgersi. Come si potrebbe altrimenti giustificare la richiesta di dare la possibilità di andare prima in pensione a prescindere dal costo che questo comporta? Come si può non rilevare il fatto che un maggior onere previdenziale ricadrà inevitabilmente su coorti di giovani lavoratori ancor meno tutelati di coloro che li hanno preceduti?



Leggere che l’eventuale taglio agli assegni di pensione si tradurrebbe in “un’operazione pagata interamente dai lavoratori” fa dubitare del fatto che in Cgil conoscano i fondamentali di un sistema previdenziale a ripartizione, ovvero che – come pare ormai da tempo – il sindacato sia sempre più rappresentativo dei pensionati e pensionandi, ma sempre meno dei lavoratori, con il risultato che esso stesso confonde gli uni con gli altri.

La riforma Fornero sulle pensioni, per quanto criticabile in taluni aspetti di dettaglio, ha comunque avuto il pregio di porre un argine a un sistema che, nella pervicace difesa di privilegi non più sostenibili, continuava a produrre un deficit previdenziale il cui ammontare avrebbe gravato oltremodo sulle generazioni di lavoratori presenti e future. Sostenere oggi che rendere flessibile la riforma pensionistica, attraverso una riduzione dei trattamenti,  rappresenterebbe un onere per i lavoratori è quantomeno paradossale. La realtà, infatti, è diametralmente opposta: qualunque modifica che non tenesse conto della stretta correlazione tra contributi-prestazioni-speranza di vita, riconoscendo trattamenti previdenziali ben al di sopra di quelli attuarialmente erogabili, rappresenterebbe un ulteriore elemento di disequità generazionale, avvantaggiando indebitamente i pensionati/pensionandi a discapito di coloro che –  lavoratori –  dovranno farsi carico degli oneri relativi.



Diverso è se la riforma Fornero fosse resa più flessibile, anticipando il trattamento previdenziale attraverso una riduzione del trattamento pensionistico correlato agli anni di permanenza in vita, ovvero attraverso una sorta di “prestito previdenziale” che il richiedente, sussistendo determinate condizioni,  potrebbe ottenere  anticipatamente rispetto al termine di maturazione dei requisiti pensionistici, con l’onere di restituzione successiva.

Per quanto concerne poi il riferimento alla rigidità dei requisiti di accesso alla pensione rispetto alla eterogeneità dei lavori, ancorché l’attuale sistema preveda determinati distinguo, viene provocatoriamente da chiedere se tale critica, coerentemente, si spinga al punto da ipotizzare oltre a un abbassamento  dell’età pensionistica per i lavori più usuranti, un innalzamento per tutti quegli altri lavori in cui è statisticamente dimostrata la permanenza in attività anche successivamente al conseguimento del trattamento pensionistico.