Il “bluff” di Matteo Renzi sul terreno della disoccupazione non è tanto quello certificato ieri dall’Istat: nessuno – neppure il premier – poteva ragionevolmente attendersi dal Jobs Act un’inversione di tendenza radicale e miracolistica. E non saranno certo eventuali miglioramenti “zero-virgola” nei prossimi mesi a consentire al governo di auto-applaudirsi al di là del legittimo “tifo” per l’uscita dalla recessione. La ripresa stessa – d’altronde – nel 2015 non andrà prevedibilmente oltre lo “zero-virgola” (+0,7% nel Def in cantiere), nonostante le ultime stime di Confcommercio superino il +1% e Confindustria intravveda perfino un +2% con una drastica accelerazione delle riforme.
Il “bluff” (più politico che economico) di Renzi è già stato messo agli atti all’inizio dell’anno da un altro dato statistico: il boom anomalo dell’apertura delle partite Iva a fine 2014 per via del timore (poi in parte rientrato) di un insaprimento del trattamento fiscale semplificato per i piccoli lavoratori autonomi. L’idea di penalizzare nella Legge di stabilità i giovani che provano da subito a navigare in mare aperto con una piccola attività professionale e imprenditoriale, non meno gli “over 40 o 50” che provano a ripartire con un self-job, ha confermato che il governo continua a traguardare la politica economica con occhiali novecenteschi, attraverso i quali scorge sempre un’immensa “Fabbrica Italia”, un’arca di Noè rigorosamente piena di dipendenti, di aspiranti tali, di dipendenti cassintegrati o di ex dipendenti pensionati.
Il Jobs Act stesso concepisce il “lavoro” come dipendente e per di più rendendo più larghi e fluidi solo i canali d’entrata. E non affrontando per nulla la flessibilità in uscita è impensabile che il “bacino” del lavoro dipendente possa mettersi in movimento: tanto più se questo bacino si va ridimensionando per ragioni strutturali. Solo ora il ministro del Lavoro Poletti insiste con maggior determinazione sullo studio di percorsi d’uscita per i lavoratori anziani; mentre il neo-presidente dell’Inps, Tito Boeri, alza il tiro contro l’evasione contributiva sapendo di dover predisporre in fretta risorse per rovesciare il paradigma della riforma Fornero (la soluzione allora individuata era l’aumento, non la diminuzione, dell’età pensionabile, accompagnata da inevitabili tagli delle prestazioni).
Ma la questione centrale che un governo neo-statalista – incapace di ristrutturare la sua Pa e di ridurre in proporzione la pressione fiscale su famiglie e imprese – non vuole affrontare è una ripresa debole, ma soprattutto jobless, più qualitativa che quantitativa sul versante occupazionale. La tutela del lavoro e soprattutto del reddito – alta o bassa, crescente o decrescente – nel ventunesimo secolo – dopo turbolenze economico-finanziarie che hanno ridisegnato la competitività economica e la distribuzione della ricchezza a livello globale, non può più essere fornita da decreti o contratti nazionali sul lavoro dipendente e nemmeno da vecchi interventi keynesiani, neppure faticosamente coordinati a livello di macro-area europea.
Le stesse politiche di stimolo monetario hanno dato risultati in una zona economica – come quella statunitense – ricca di innovatività industriale, non di autostrade da rimodernare. Migliaia di bancari italiani sono sotto pressione occupazionale – molto più da quanto si creda – dell’emergere del web banking (presto da “Google Bank”) più che dai colpi inflitti dalla crisi finanziaria o dalla vigilanza severa della Bce.
Può essere inutile – anche nel breve periodo – concedere sgravi contributivi alle assunzioni se non si ripopola il Paese di chi è capace di assumere: foss’anche solo capace di assumere se stesso.