Venerdì scorso l’Inps di Tito Boeri ha diffuso le sue rilevazioni circa i rapporti di lavoro attivati nel primo bimestre 2015: nei mesi di gennaio e febbraio dell’anno in corso, i rapporti di lavoro attivati sono stati 968.883. Nello stesso periodo del 2014, i rapporti di lavoro attivati ammontano a 968.870. La differenza è, come hanno sottolineato a gran voce diversi organi di stampa, soltanto di 13 rapporti di lavoro attivati in più. Quindi, secondo alcuni commentatori, il Jobs Act avrebbe fruttato una crescita di 13 rapporti di lavoro. È giusta questa conclusione? No, è del tutto fuorviante. Vediamo perché.
Innanzitutto, il Jobs Act – col suo contratto a tutele crescenti, ovvero il nuovo contratto a tempo indeterminato – entra in vigore dal 1° marzo 2015. Ancora quindi non conosciamo i dati relativi all’utilizzo del contratto a tutele crescenti e, quindi, del Jobs Act. Ciò che ci è noto è soltanto l’utilizzo del vecchio contratto a tempo indeterminato in relazione al forte incentivo (fino a 8.000 euro) della Legge di stabilità previsto dal 1° gennaio 2015 che riguarda quindi i rapporti di lavoro attivati che stiamo considerando.
Fatta questa premessa, sappiamo che tra gennaio e febbraio 2015 sono stati attivati circa 79mila contratti stabili in più, ovvero +20,7% rispetto al 2014, e che il 7,4% dei contratti di apprendistato è stato convertito. Questi numeri sono però bilanciati dal calo dei contratti a termine (-7%) e dei nuovi contratti di apprendistato (-11,3%).
Possiamo dire in sintesi che, al momento, ciò che si registra è un trend incoraggiante dell’occupazione di qualità, certamente stimolato dal forte incentivo dello sgravio fiscale. Non possiamo sottovalutare il fatto che in soli due mesi circa 79.000 contratti attivati sono a tempo indeterminato, oltretutto parliamo del contratto vecchio: certamente con il contratto a tutele crescenti questo trend aumenterà.
Per troppi anni il mercato è stato schizofrenico, domanda e offerta hanno faticato a fidarsi reciprocamente in assenza di uno strumento ordinario in grado di offrire flexicurity, ovvero flessibilità per l’azienda e sicurezza per il lavoratore. Da qui il ricorso alle forme atipiche pur di non assumere a tempo indeterminato – dopo la legge Fornero soltanto il 17% dei contratti attivati erano a tempo indeterminato -, col risultato che l’impresa difficilmente riesce a fidelizzare il lavoratore e questo, in molti casi, è in ricerca costante perché regolarizzato con rapporto a termine e/o non stabile.
Certamente – per via del forte incentivo economico sul contratto a tempo indeterminato – il contratto di apprendistato rischia di essere figlio di un dio minore, probabilmente andrà rivisto qualcosa visto che un grande utilizzo non si è mai registrato. È comunque chiaro che la strada della defiscalizzazione va resa strutturale, non può essere una tantum.
In sintesi, il Jobs Act e il contratto a tutele crescenti offrono una soluzione che il mercato chiede da troppo tempo. Sbaglia di molto chi la sottovaluta: anche questa è crescita, o perlomeno ne è condizione.
P.S.: Nel decreto legislativo del Jobs Act sul riordino delle tipologie contrattuali è previsto un aumento dei contributi per tutte le imprese come clausola di salvaguardia dello sconto contributivo per le aziende che stabilizzano i precari. Questo l’affondo di Fabrizio Forquet, vicedirettore de Il Sole 24 Ore, che per primo sabato scorso ne ha parlato: “C’è un livello di decenza sotto il quale non si dovrebbe mai scendere. Ma questa volta si è andati anche oltre. Sembra una boutade, uno sketch di Crozza. E invece qualcuno lo ha scritto davvero nel decreto legislativo sui contratti. Bisognerebbe pretendere il nome di cotanto genio. Di sicuro Renzi interverrà. O no?”.
Sì, crediamo Renzi interverrà…
In collaborazione con www.think-in.it