Riforma pensioni 2015. La legge Fornero sulle pensioni non ha terminato di spiegare i suoi effetti che già si parla di riformare la riforma. C’è chi vorrebbe azzerarla completamente e chi invece si limiterebbe a un tagliando di manutenzione; chi ritiene che parte della stessa andrebbe riscritta e chi vorrebbe integrarla per renderla più flessibile. Di certo c’è che nessuno (o quasi) vuole lasciarla così com’è. In più, come da copione, ogni presa di posizione è supportata da dati e statistiche che – a conferma di una nota citazione – sono usate come un ubriaco usa i lampioni: valide più come sostegno che per illuminare.



Se volessimo analizzare tutte queste proposte, la prima discriminante di valutazione la si può riscontrare nell’approccio (politico o tecnico) del proponente alla problematica, che di solito ne contraddistingue anche il fine (consenso popolare o sostenibilità attuariale). La distinzione non è di poco conto se si considera anche che, negli ultimi vent’anni, le più importanti riforme del sistema pensionistico sono sempre state adottate in situazioni emergenziali nelle quali la ricerca del consenso elettorale lasciava spazio alle più concrete esigenze di sostenibilità finanziaria (Governo Amato 1992, Governo Dini 1995, Governo Monti 2011).



In altri termini, in Italia, ogni qualvolta si è agito sul piano pensionistico per garantire maggiore sostenibilità al sistema, attraverso una stretta sui requisiti di accesso o sulle modalità di computo del trattamento, si è agito per mezzo di governi “tecnici” , rilevando così l’atavica difficoltà della “politica” ad assumere decisioni i cui effetti non vadano oltre le successive scadenze elettorali.

Purtroppo il tema pensioni è spesso utilizzato per acquisire maggior consenso politico e le tematiche previdenziali vengono esposte demagogicamente nella cinica consapevolezza che mentre i pensionati e i pensionandi sono fortemente interessati al punto (e quindi positivamente influenzabili nella scelta di voto), le coorti più giovani sono meno attente nella valutazione di riforme i cui effetti (ancorché negativi) si produrranno in anni lontani nel tempo.



Come si spiegherebbero altrimenti mostri previdenziali quali quelli che hanno reso possibile l’andata in quiescenza di alcuni con soli 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di anzianità contributiva? Come si sarebbe potuta giustificare la maturazione di un trattamento previdenziale che, in alcuni casi, ha permesso in soli 2 o 3 anni di pensione il recupero della contribuzione versata durante l’intera vita lavorativa? 

Per questo, la lente attraverso la quale analizzare le diverse proposte dev’essere l’esame degli effetti che esse producono non solo nell’immediato, ma anche (e soprattutto) nel futuro; superando con ciò l’ottica del breve periodo che risulta essere totalmente fuorviante rispetto ai traguardi temporali della previdenza che sono necessariamente di lungo termine. In quest’ottica è fondamentale la strada della trasparenza che ha inteso intraprendere il nuovo Presidente dell’Inps Tito Boeri; la conoscenza dei dati è infatti elemento fondamentale per il decisore ma anche per chi tali decisioni subisce. 

E il primo dato sul quale fare chiarezza è il livello di sostenibilità dell’Inps (attraverso magari la pubblicazione dei relativi bilanci tecnici), che oggi è garantita non (come alcuni credono o vogliono far credere) da una corretta valutazione attuariale di equilibrio tra prestazioni e contribuzioni, bensì dalla fiscalità generale. Infatti, stando ai dati del Bilancio preventivo 2015, al di là dei dati già conclamati di squilibrio in quasi tutte le gestioni previdenziali, l’Inps riceverà oltre 100 miliardi destinati alla “Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali” – Gias – , di cui 60 miliardi per oneri pensionistici, dove il confine tra assistenza e previdenza risulta estremamente labile. 

E sempre per restare in tema di trasparenza, speriamo siano accessibili quanto prima i valori delle pensioni contributive in maturazione, anche perché se, come evidenziato dalla Spi-Cgil, con i blocchi alla perequazione dei trattamenti, “negli ultimi quattro anni a 5,5 milioni di pensionati sono stati sottratti 9,7 miliardi di euro, pari ad una perdita media pro-capite di 1.779 euro”, bisognerebbe anche quantificare qual è la minor pensione che spetterà a tutti quei giovani che – per il fatto di essere chiamati a riequilibrare un sistema previdenziale che non hanno contribuito a creare – si vedranno computare la stessa non più con il sistema retributivo bensì con il ben meno generoso sistema contributivo e senza poter nemmeno contare su un trattamento di pensione minima.

Sotto questo punto di vista, le proposte volte a ripristinare equità intergenerazionale, sicuramente condivisibili nel fine, possono trovare un grosso limite nello strumento adottato che, se non opportunamente calibrato e strutturato, rischia di frantumarsi al primo vaglio giudiziario.

Relativamente invece alla volontà di rendere più flessibili i requisiti anagrafici di accesso al trattamento previdenziale, è essenziale che qualunque ipotesi di lavoro non vada a intaccare la sostenibilità attuariale, perché ciò si tramuterebbe in un ulteriore aggravio per le generazioni future. A ciò si aggiunga che la flessibilità pensionistica non deve concretizzarsi in un nuovo strumento di ammortizzazione sociale, sia perché difficilmente si potrebbe adattare a tale scopo senza snaturarne il concetto, sia perché aumenterebbe la già grande confusione che oggi si riscontra – anche in termini bilancistici – tra assistenza e previdenza.

Anzi, probabilmente, il punto essenziale di una riforma in itinere potrebbe essere proprio quello di rivedere il sistema assistenziale, definendolo nella sua accezione primaria, individuandone i contorni di operatività, stabilendo in maniera trasparente i meccanismi di finanziamento e, soprattutto, distinguendolo in maniera chiara e incontrovertibile da quello previdenziale. 

 

Twitter @walteranedda