Whirpool annuncia 1.400 esuberi, CNA esulta per il numero delle assunzioni che il Jobs Act porterà con sé. Chi ha ragione? È ancora crisi o stiamo uscendone? È nel vero chi pensa che si veda la luce in fondo al tunnel o chi parla di miraggio e di illusione? E se entrambi fossero dalla parte del giusto? Se cioè entrambe le posizioni fotografassero un dato vero e la realtà consistesse nell’insieme, nel quadro complessivo e non in un dettaglio o nell’altro? Ma come si conciliano queste due cifre? Com’è possibile che l’uscita dalla crisi stia anche nella brutta notizia giunta dalla Whirpool, e che le assunzioni fotografino comunque un atto, un passaggio legato agli anni che sono appena passati?



In effetti, occorre tener presente tutti gli elementi della realtà per poter dare un giudizio, diceva un saggio. La crisi non è stata solo un’onda di piena che ci ha investiti e che, una volta passata, non avrebbe lasciato il segno. Siamo entrati in una fase epocale, nella quale la crisi, cioè la trasformazione del sistema economico-produttivo, non durerà un istante ma prenderà le forme di un dato costante e continuo.



In altri termini, il caso Whirpool al di là delle contingenze, dell’essere stato annunciato con un certo anticipo, dell’aver investito soprattutto uno dei rami produttivi e una parte dell’intero gruppo, è il tipico caso di una multinazionale che agisce globalmente, si muove nel grande mare del pianeta e ragiona in termini universali. Prima di arrivare in Italia il management statunitense aveva chiuso già uno stabilimento in Svezia e altrettanto aveva fatto in Germania: e lì non c’è il Jobs Act, non c’è nemmeno la crisi. Whirpool non è dunque sinonimo di crisi, ma di una fase del sistema alla quale faremo bene ad abituarci: si licenzia in Italia se vanno male le vendite di frigoriferi in India, si assume (forse) in Italia se vanno bene le vendite di auto in Sudamerica!



E il Jobs Act? Le assunzioni? Quelle vanno bene, sono un buon segno. Certo, almeno tanto quanto il primo evento era (è) un evento al quale non si può non guardare con preoccupazione. Ma, anche qui c’è un ma. Perché finora abbiamo assistito alla sottoscrizione di contratti che prima erano di natura precaria, siglati da giovani che fittiziamente svolgevano un lavoro autonomo ma che in realtà erano a tutti gli effetti dei lavoratori dipendenti. Quindi a oggi questo fatto, indubbiamente positivo e al quale alcuni sindacati, in primis la Cisl, hanno lavorato a lungo e nemmeno troppo sottotraccia, è solo il segnale non dell’emersione dalla crisi, ma dal precariato.

Quanti sono i nuovi contratti, quelli legati al rilancio, all’uscita dal tunnel? Ancora troppo pochi, perché il rilancio dell’economia non avverrà con il Jobs Act, bensì con interventi radicali sul tema del costo del lavoro, del costo dell’energia, dei tempi della giustizia, del credito. Manca una visione politica del futuro industriale italiano, non sappiamo se diventeremo la Florida dell’Europa, cioè il parco giochi e il museo, più o meno all’aria aperta, del prossimo millennio, o se c’è ancora uno spazio qui, nel Bel Paese, per il manifatturiero.

Insomma, ci aspetteremmo che il Governo decida anche se domani saremo tutti dei custodi di museo e guide turistiche o se ci sarà ancora bisogno di tecnici specializzati e di ingegneri. Tutto qui: ed ecco perché i segnali ci sembrano contraddittori. Perché la realtà è più complessa di quel che ci fa piacere credere.

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