Quando Elsa Fornero fu chiamata da Monti per il dicastero del Welfare, si pensò subito che la svolta definitiva della riforma pensionistica era dietro l’angolo, vigenti gli estremi della legge delega, e reggente Sacconi lo stesso ministero, all’epoca impegnato, guarda caso, sul fronte dei fondi esodi. Elsa Fornero usciva da Intesa Sanpaolo come Vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza e la banca era al primo posto in Abi per l’utilizzo di tale strumenti sin dal 2008.
La percezione, anche dagli ultimi rilasci del Cerp, il centro studi che la professoressa indirizzava, era chiara. Il sistema contributivo sarebbe stato applicato erga omnes a far data dal primo mese utile. La pensione di anzianità con il suo sistema delle quote sarebbe stata cancellata. Si avrebbe avuta la pensione di vecchiaia, con una piccola deriva per l’uscita anticipata in un quadro che prevedeva l’innalzamento drasticamente progressivo dell’età utile, complice l’aumento delle aspettative di vita e l’abbassamento della capacità di reddito e il legame con il Pil.
Con la convinzione che il passo sarebbe stato da “blitzkrieg”, scrissi più di una volta alla futura “ministra” (che chiedeva sempre conferma che non fossi uno spam), per i condivisi retroterra culturali e professionali, pregando di porre attenzione alla necessaria gradualità di tale passo. La stessa opinione la raccolsi in buona parte del mondo sindacale italiano, avendo un passato oltre che di economista, di dirigente della Fiba-Cisl. Due condizioni utilizzate per introdurre nel 1991 la prima “area contrattuale”, grazie a un lavoro comune con l’allora ministro Donat Cattin, proseguito poi con l’analisi da alter ego del documento sulle privatizzazioni, realizzato da Scognamiglio e pietra basilare per procedere a riformare il sistema bancario. L’attenzione come economista ai segnali deboli e quel poco di esperienza storica maturata spinse a reiterare l’allarme, ma… Il resto è noto.
Sotto la cosiddetta scure europea, non si sa se per fretta o per dimenticanza, la volontà di far quadrare il quadrabile ha lasciato in eredità 12 miliardi di euro di rattoppo sul problema degli esodati e l’amara consapevolezza che l’Italia non è un Paese che ami proprio ragionare sui dati, visto che trova difficoltà a curarne adeguatamente la registrazione, nonostante un ottimo Istat…. ma un problematico Inps.
Come molti di noi sanno, spesso un danno costituisce una sfida e il nostro danno è di non riuscire a produrre un sistema-Paese perché non ragioniamo e operiamo in termini di sistema-Paese. Cosa vuol dire? Vuol dire che una riforma delle pensioni, quando pensata bene lavora bene con una riforma del lavoro e una riforma del lavoro (nella quale quella del mercato del lavoro è una componente) richiede una visione complessiva di come e con cosa uscire dalla scuola, dal liceo e dall’università e di come e con cosa entrare nel mondo del lavoro e uscirne dopo x anni diventando pensionato. Tutto ciò incrociando fattori come demografia, immigrazione, crescita economica, agibilità anticiclica, debito, sostenibilità ed equilibrio finanziario… Vi paresse poco.
Con la conferma che “nemo propheta in patria”, decisi di espormi alla provocazione di un dibattito prima che tutto secondo memoria storica passasse dalla prima alla pagina 39 dei giornali. Questo con una convinzione: non si può eticamente dimenticare o alleggerire ciò che uomini e donne vivono quotidianamente sulla propria pelle, come non si può dimenticare quello che scrisse Tucidide nelle Guerre del Peloponneso a proposito della democrazia ateniese: “Non tutti sanno elaborare, scrivere e presentare un programma politico, ma tutti sono in grado di giudicarlo”.
Il giudizio, quindi, su come si stesse determinando il perimetro del dibattito tra esodi, partita di scambio sul costo del lavoro tra anziani che escono e giovani che entrano, equilibri e squilibri vari ha portato a una domanda, che io definisco una sfida alchemica. È possibile “riformare la Riforma”, ovvero modificare le criticità, risolvendo i guasti, e mantenere l’architettura previdenziale innovandone le componenti, lavorando su quattro fronti: 1) accesso anticipato alla pensione, 2) contribuzione volontaria, 3) non esodati pensionandi, ma pensionati, 4) occupazione giovanile? Ovvero esiste una risposta alla domanda di come risolvere il triplice nodo di 1), 3), e 4)?
Tutte le quattro “issues” sono collegabili in un percorso per formulare alcune soluzioni. Infatti, l’interrelazione macro che esiste fra le quattro componenti può, se asseverata, offrire la possibilità di sviluppare un processo che partendo dalla risoluzione del problema dell’accesso alla pensione, attraverso l’innovazione contributiva, risolva il problema degli esodati, aprendo spazi per l’occupazione giovanile.
Tutto ciò può accadere restando ben consci che fino al tentativo di putsch in Abi con la convocazione dei Segretari generali – sventato da Ferruccio de Bortoli con un pregevole editoriale sul CorriereEconomia di qualche anno fa la stessa mattina dell’incontro – la procedura di esodo è sempre stata quella prescelta per ridurre il costo del lavoro grazie a un processo di sostituzione generazionale. Al di là di ogni commento su questo modo di creare occupazione, si deve rinnovare la necessità di un quadro di riforma del lavoro (e si sottolinea non solo del mercato del lavoro) dalla fine dell’istruzione alla pensione. Confesso la mia debolezza per il ciclo di Samuelson…
Fin qui le parole, ma bisogna passare ai numeri. E ben fanno Renzi e Poletti (che hanno ricevuto, insieme ad altri come Damiano, Sacconi, Baretta, Giovannini, Treu, Gutgeld e Boeri questa proposta) a dire vediamo i numeri. Ciò che ha accompagnato sempre questa proposta sin dal maggio 2013 è stato tautologico: se fa risparmiare un euro in più del previsto in un contesto socialmente sostenibile può essere presa in considerazione. E quindi ai competenti uffici dei dicasteri interessati tocca verificare la compatibilità contabile con il risultato atteso per evidenziare se venga generata una posizione attiva netta, rispetto a quanto finora accaduto nella cooperazione pubblico/privato e pertanto far derivare da tale controllo un fine tuning, per favorire le assunzioni.
In un prossimo articolo esporrò quindi i capisaldi di questa “riforma della riforma”.
(1- continua)