Gli 1,9 miliardi stanziati dal governo sotto forma di sgravi alle assunzioni permetteranno di creare fino a un milione di nuovi posti di lavoro. Questo l’annuncio del ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che segue numerose altre affermazioni di tono ottimistico espresse dal governo nei confronti del Jobs Act, soprattutto dopo il dato sul “boom” (+38%) di contratti a tempo indeterminato nel primo bimestre dell’anno. Tuttavia i dati dello stesso ministero relative alle comunicazioni obbligatorie mostrano che, al netto delle cessazioni, nei primi due mesi del 2015 ci sono stati 45mila contratti stabili in più. E l’Istat ha da poco evidenziato che a febbraio l’occupazione è scesa rispetto al mese precedente. Ne abbiamo parlato con Giorgio Benvenuto, ex segretario generale Uil ed ex senatore dell’Ulivo.
Davvero gli sgravi alle imprese creeranno un milione di posti di lavoro come annunciato dal ministro Poletti?
Sono sconcertato. L’impegno di tutti è perché il problema della disoccupazione si ridimensioni come è avvenuto in altri Paesi. Non condivido però i termini enfatici utilizzati dal ministro del Lavoro e dal presidente del Consiglio. Le statistiche vanno costruite su parametri più ampi, non si possono fare paragoni sulla base soltanto di due mesi.
Serve maggiore realismo?
Sì, bisogna fare i conti con la realtà, altrimenti si finisce per atteggiarsi a Mago Merlino della statistica e a dare per scontato un futuro che non ha nessuna base concreta. Quella di Poletti assomiglia di più a una promessa elettorale piuttosto che a una verifica dei risultati di un’azione di governo. Se ci fosse un rapporto costruttivo con il sindacato e gli imprenditori, sarebbe possibile monitorare e verificare meglio i dati, fornendo all’opinione pubblica dei punti di riferimento più certi.
È pensabile rilanciare l’occupazione finché la domanda interna ristagna?
Se non c’è domanda, non si possono assumere le persone per farle rimanere con le mani in mano. È necessaria una politica economica audace anche nei fatti che permetta di puntare su un aumento della domanda interna. Ciò non sta avvenendo perché i rinnovi dei contratti di lavoro sono bloccati, le pensioni pure, le aziende si trovano in difficoltà. La stessa dichiarazione del ministro Poletti è controproducente, perché sembra quasi che una volta approvata la legge si creeranno automaticamente posti di lavoro.
Di quanti mesi c’è bisogno per capire se il Jobs Act funziona davvero?
Difficile fare previsioni, ma se vogliamo ottenere dei risultati, occorre ridurre immediatamente il peso fiscale per riattivare la domanda. Solo a questa condizione anche il Jobs Act avrà un senso.
Il Jobs Act risponde al problema della disoccupazione giovanile?
Esiste effettivamente un fattore di cambio di tendenza per un’attenzione a ridurre il precariato come forma normale di occupazione. Ma a parte ciò non vedo effettive risposte nei confronti del problema dell’occupazione giovanile. L’atteggiamento di autosufficienza tenuto dal governo nei confronti delle parti sociali del resto non gioca positivamente.
Insomma, la riforma del lavoro non basta?
È fondamentale che si riattivi un meccanismo. Così com’è il Jobs Act si rivela un espediente propagandistico, viziato per di più da tutti questi termini inglesi che assomigliano al Latinorum con cui don Abbondio nei Promessi Sposi voleva abbindolare Renzo.
Il contratto a tutele crescenti potrà essere utilizzato per fare il mutuo in banca?
Oggi come oggi le banche non accendono il mutuo nemmeno a chi ha il contratto a tempo indeterminato classico. Molte delle nostre banche preferiscono compiere delle grandi operazioni finanziarie. Mentre bisogna creare le condizioni, come è avvenuto in altri Paesi, per creare la flexicurity, e non come da noi la flexy-insecurity. Come una banca non dava un prestito a un apprendista, allo stesso modo è prevedibile che non lo dia a un lavoratore con contratto a tutele crescenti. Se si vuole attuare una politica graduale e ragionevole, tutti questi compartimenti stagni devono essere messi in comunicazione.
(Pietro Vernizzi)