Dopo solo una settimana arrivano i dati Istat a correggere l’ottimismo che veniva dai numeri delle Comunicazioni obbligatorie divulgati dal ministero del Lavoro. Allora sembrava che il trend del mercato del lavoro si fosse invertito, crescevano gli occupati e in particolare aumentavano i lavori di qualità. L’Istat, diffondendo i dati relativi al mese di marzo, ci offre un quadro molto diverso. La disoccupazione cresce (+0,2%) e raggiunge il 13%. I disoccupati sono cresciuti nel corso degli ultimi 12 mesi del 4,4% con +138.000 persone registrate come in cerca di lavoro.
Per i giovani la situazione non è migliorata. La crescita mensile dei disoccupati è dell’1,2% (8.000 disoccupati in più) e il tasso è complessivamente al 43,18%. Siamo arrivati quindi a poter considerare che 1 giovane su 10 nella classe di età 15-24 anni è in cerca di lavoro.
Se la disoccupazione cresce, l’occupazione scende. Risultano 59.000 occupati in meno rispetto al mese precedente e il tasso di occupazione complessivo è pari al 55,5%. Quella giovanile rimane stabile al 14,5%.
L’Istat indica anche il tasso di inattività, ossia coloro che non partecipano al mercato del lavoro per scelta o perché scoraggiati. Tale numero scende dello 0,1% proseguendo un trend che ha visto scendere gli inattivi di 140.000 unità nell’ultimo anno (-0,2%).
I dati Istat ci confermano che il nostro mercato del lavoro non sta funzionando. Appare evidente che mostrano un Paese incapace di innescare la marcia della crescita economica. La fotografia dei dati occupazionali è speculare ai dati relativi alla produzione industriale e alla domanda aggregata: senza crescita di queste variabili non avremo scossoni significativi per il mercato del lavoro.
I due dati apparentemente contraddittori del calo sia del tasso disoccupazione che del tasso di inattività ci indica che siamo arrivati al punto di svolta. Finora l’agire degli ammortizzatori sociali (ricordiamo che chi è in cassa integrazione risulta a fini statistici occupato) ha permesso di fare apparire il tasso di occupazione sostanzialmente stabile. Gli inattivi invece erano stabili perché comprendevano gli usciti dal mercato del lavoro e chi non voleva entrarci. Oggi il calo di entrambi porta immediatamente all’aumento dei disoccupati. Significa che la crisi porta a espellere dai posti di lavoro persone che non possono permettersi di ritirarsi dal mercato, anzi, spinge alcuni usciti precedentemente a rimettersi in gioco per cercare lavoro.
Dietro questi macro numeri restano i problemi strutturali del nostro mercato del lavoro. Una transizione scuola-lavoro difficile. I giovani pagano un alto prezzo al ritardo con cui si è arrivati a prevedere facilitazioni amministrative per l’apprendistato a tutti i livelli e ad avviare finalmente un rapporto percorsi scolastici-esperienze lavorative in tutti i livelli di scolarità. Pagano inoltre un mercato che per troppo tempo ha tutelato chi già inserito nel mondo del lavoro e penalizzato gli ultimi arrivati.
Quasi identica la situazione occupazionale femminile. Con il 55,5% di tasso di occupazione complessivo possiamo dire che in ampie zone del Paese il lavoro femminile è solo residuale. Nonostante si sostenga da tempo che il contributo lavorativo delle donne è essenziale per lo sviluppo del Paese, i risultati sono quelli del gambero. Poche donne trovano collocazione lavorativa, restano penalizzate negli stipendi e soprattutto poco è stato fatto per sostenere esplicitamente la conciliazione lavoro-famiglia e incrementare posti di lavoro femminili.
Detto ciò, per quanto riguarda i dati Istat sarebbe sbagliato confrontarli con i numeri visti la settimana scorsa. I dati su cui lavora Istat sono costruiti attraverso indagini a campione sull’intera popolazione italiana. Contengono elementi statistici che, seppur con altissimi livelli di sofisticazione, scontano un’imprecisione dovuta all’approssimazione di tipo statistico applicato. Variazioni valutabili allo 0,1 piuttosto che 0,3 hanno un senso solo indicativo. Potremmo dire che non è cambiato niente rispetto al periodo di confronto. Se poi si riferiscono a periodi molto brevi, i 30 giorni di un mese, i cambiamenti di piccola entità registrati hanno ancora meno rilevanza.
I dati del ministero di una settimana fa erano invece dati reali, erano tratti dai movimenti effettivi registrati dalla Comunicazioni obbligatorie che erano stati effettuati nel corso del mese di marzo. Essendo marzo il primo mese di applicazione delle nuove forme contrattuali rendevano evidente come il mercato aveva velocemente recepito le nuove opportunità. Diverso è l’impatto che la nuova normativa avrà sull’occupazione complessivamente intesa. Il tasso di occupazione varia al variare della domanda e quindi dell’aumento della produzione di beni e servizi.
Oggi la politica economica dovrà concentrarsi in queste variabili se vuole ottenere una crescita di occupati e proporsi ad arrivare al 70% di tasso di occupazione. Solo così misureremo anche se il nuovo sistema di workfare disegnato dal Jobs Act è efficace e sostenibile, ossia adatto a sorreggere una nuova rinascita economica.