Intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali della proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e dell’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.): questa, tecnicamente, la motivazione con cui la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità del blocco della perequazione dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il minimo Inps, imposto per gli anni 2012 e 2013 dalla Legge Fornero.



La sentenza 70/2015, depositata ieri, avrà immediati effetti sia sul piano finanziario (si stima in circa 5 miliardi il maggior onere per l’Inps), sia sul piano sociale con il riacutizzarsi del conflitto intergenerazionale. Ma andiamo con ordine.

L’art. 24, comma 25, del DL n. 201 del 2011, (il cosiddetto “salva Italia”) stabiliva che, per gli anni 2012 e 2013, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici non operasse per quelli di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo Inps. La norma, impugnata presso diverse sedi, è stata rimessa al vaglio dei Giudici costituzionali, i quali si sono pronunciati con la citata sentenza 70/2015..



È subito da evidenziare che la Corte ritiene non fondata la questione di costituzionalità per violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., in relazione alla presunta natura tributaria della misura. Infatti, a parere della stessa, l’azzeramento della perequazione automatica non è riconducibile a una prestazione patrimoniale di natura tributaria, mancando gli elementi indefettibili della medesima. In particolare, posto che un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva», il blocco della rivalutazione dei trattamenti pensionistici, invero, non prevede un prelievo a carico del pensionato. Inoltre, la norma non è volta alla copertura della spesa pubblica, bensì determina esclusivamente un risparmio di spesa.



L’attenzione dei Giudici si posa invece sulla discrezionalità di cui gode il legislatore in relazione alla possibilità di incidere sul trattamento previdenziale, attesa la necessità di osservare il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni. A tale scopo, la Corte, richiama un suo precedente pronunciamento che riguardava il blocco temporaneo della rivalutazione delle pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo Inps (art. 1, comma 19, L. 24 dicembre 2007, n. 247), nel quale, pur riconoscendo la legittimità di detta norma, indirizzava un monito al legislatore, in funzione del fatto che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la reiterazione del medesimo, avrebbe compromesso gli “invalicabili” principi di ragionevolezza e proporzionalità.

I giudici, infatti, evidenziano come il meccanismo perequativo sia uno strumento di natura tecnica, che tende a garantire l’adeguatezza di cui all’art. 38 Cost. e, contemporaneamente, favorisce la salvaguardia del principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., ben applicabile ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita.

Per tale motivo, a parere della Corte, il trattamento pensionistico, riconosciuto come retribuzione differita, cui si applica il criterio di proporzionalità (art. 36, primo comma, Cost.) e il criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), non può essere oggetto di misure non omogenee e irragionevoli. Ciò a maggior ragione quando si accresce la speranza di vita e quindi aumentano le attese dei beneficiari in ordine alla esigenza di condurre un’esistenza libera e dignitosa.

Pertanto, la citata discrezionalità del legislatore trova un limite nel criterio di ragionevolezza, in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Limiti di ragionevolezza che, secondo i Giudici, risultano superati nel dettato della norma oggetto di censura, che crea pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento previdenziale vanificando anche le aspettative nutrite dal lavoratore.

Ora, preso atto dell’analisi svolta dalla Corte e della conseguente decisione da essa assunta, permangono comunque alcuni elementi di fondo sul quale risulta difficile non interrogarsi. Se è vero che esiste un limite alla discrezionalità del legislatore e se è altrettanto vero che tale limite si riscontra nella necessità di preservare – ragionevolmente – i principi di proporzionalità e adeguatezza tutelati dalla Carta Costituzionale, come sarà possibile tutelare in futuro tale valori, posto che i trattamenti previdenziali, causa un computo prettamente contributivo, saranno ben al di sotto di quelli ordinariamente riconosciuti sinora?

In che termini sarà possibile riconoscere la proporzionalità del trattamento previdenziale, inteso come retribuzione differita, in ordine alla quantità e qualità del lavoro prestato, quando coloro che oggi versano la contribuzione sono chiamati a far fronte anche agli squilibri che un sistema previdenziale “drogato” ha accumulato negli anni passati? In che termini si potranno costituzionalmente giustificare come “adeguati” trattamenti previdenziali che attesteranno su tassi di sostituzione ben inferiori a quelli oggi riconosciuti?

Tutte domande queste a cui dovrebbe essere data una risposta in tempi brevi: il paradosso temporale della previdenza fa sì che quarant’anni di lavoro sembrino un’eternità in termini di orizzonte di vita, ma sono niente rispetto ai tempi necessari al riequilibrio finanziario ed equitativo, di un sistema previdenziale.

Contrariamente infatti a quello che siamo portati a credere e richiamando un nota citazione, “il futuro non è più quello d’una volta”.

 

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