La recente fotografia dell’Inps sui dati di assunzioni e di licenziamenti del primo trimestre 2015 ha fatto più scontenti che contenti. Personalmente mi sono iscritto al secondo gruppo, tanto da scrivere che i dati dell’Inps denotano la «crescita della buona occupazione» (Italia Oggi del 12 maggio scorso). Altri, invece, hanno manifestato il contrario, sollevando «”dubbi” sul boom dei contratti a tempo indeterminato» (Giuliano Cazzola su IlSussidiario.net del 12 maggio) o sostenendo che «senza art. 18 le nuove assunzioni sono a termine» (Michele Tiraboschi su La Stampa del 12 maggio).
Giuliano Cazzola, a dire il vero, dai dati dell’Inps estrae anche del buono: «La combinazione “virtuosa” tra l’incentivo disposto dalla legge di stabilità e il contratto a tutele crescenti che sta cambiando la struttura dell’occupazione, dato che crescono i rapporti relativamente più stabili e si riducono, in percentuale e in valore assoluto, i contratti a termine e quelli atipici». Però il “dubbio” che ha è questo: quale dei due incentivi (lo sgravio o quello normativo) ha contribuito maggiormente a determinare il “balzo in avanti” delle assunzioni a tempo indeterminato? Perché – qui sembrerebbe il problema – se fosse stato il primo (lo sgravio), «è evidente che si potrebbe porre un problema non di scarso rilievo, a partire dall’anno prossimo, se il Governo non trovasse il modo di rifinanziare adeguatamente l’operazione».
Più drasticamente scontento è apparso Michele Tiraboschi, stroncando sul nascere ogni analisi dei dati Inps: «Sui nuovi occupati», afferma, «i dati veri sono quelli delle rilevazioni ufficiali Istat». Non sembra condividere il ministro del Lavoro Poletti, che sostiene come anche riuscire ad aumentare la qualità del lavoro, riducendo la precarietà, sia un risultato importante; infatti, esorta a non dimenticare che i nuovi contratti “stabili” «sono contratti senza art. 18»: dopo uno, due o tre anni di esonero contributivo, si può «lasciare a casa il lavoratore pagando da 4 a 6 mensilità di indennizzo». In definitiva, Tiraboschi «trova contraddittorio fare la propaganda contro la precarietà e poi festeggiare perché ci sono più contratti stabili, ma di questo tipo», cioè senza l’art. 18.
Per Cazzola e Tiraboschi, dunque, il maggior numero di posti di lavoro a tempo indeterminato rappresenterebbe una “bolla” speculativa del nuovo sgravio triennale; per Tiraboschi, inoltre, non si potrebbe parlare neppure “buona occupazione” (cioè non precaria), perché le nuove assunzioni non hanno la tutela della stabilità dell’art. 18.
Sulla prima questione va ricordato che lo sgravio della Legge di stabilità del 2015 non è nuovo, ma già esisteva nel passato (è rimasto fruibile fino alle assunzioni fatte entro il 31 dicembre 2014). Era disciplinato dalla legge n. 407/1990, con queste particolarità rispetto all’attuale versione: solo nel Mezzogiorno e per le imprese artigiane l’esonero era totale (cioè come oggi, del 100%); nel resto d’Italia, invece, era del 50%. Ciò, dunque, fa vacillare la tesi per cui l’impennata di assunzioni sia dovuta all’incentivo economico. Ma ammesso pure che lo sia, ciò sarebbe come la scoperta dell’acqua calda, ossia confermerebbe ciò che si sa: che il costo del lavoro è alto e sproporzionato.
È più plausibile, allora, che a spingere le nuove assunzioni sia stato proprio il nuovo contratto a tutele crescenti. Perché? Perché abbatte assai il costo del lavoro: quest’ultimo, infatti, non è rappresentato soltanto dalle retribuzioni e dai contributi, ma anche dal costo (non misurabile) dell’incertezza di un contenzioso sui licenziamenti tipico di un sistema all’italiana (dove a fare legge sono sindacati e magistrati).
È vero, come dice Tiraboschi, che i nuovi contratti, anche se a tempo indeterminato, hanno meno stabilità rispetto al passato non essendoci più l’art. 18. Non convince, però, ciò che aggiunge, ossia che il contratto a tutele crescenti non contrasti la “precarietà”. Perché è più precario chi ha una co.co.co. o una partita Iva (non avendo tutele su pensione, ammortizzatori sociali, assegni familiari, malattia, maternità e così via) rispetto a chi è assunto a tempo indeterminato, con tutele crescenti, e gode del massimo delle tutele sul lavoro eccetto la garanzia del posto di lavoro. Altrimenti si rischia un passo indietro: tornare a tutelare il “posto di lavoro”, piuttosto che “il lavoro”.