Occorre ammetterlo: fa un certo effetto leggere la notizia, riportata da alcuni grandi giornali, che in Cina si starebbero licenziando migliaia di operai perché inutili in una fabbrica ormai “totalmente robotizzata”. Ovviamente uno ripensa subito, vista l’età dello scrivente, al Libretto Rosso di Mao, alla Rivoluzione culturale, alle masse operaie liberate dal Grande Condottiero. E poi ancora all’operaismo nostrano, alle parole d’ordine che circolarono allora nel sindacato tutto. Ma anche, in tempo un po’ più moderni, ad affermazioni degne di Fatima o di Lourdes e quindi alle visioni mistiche bertinottiane e landiniane di fronte ala classe operaia. In loro nome, in nome delle mitiche tute blu, si è consumata un’intera epoca della nostra storia: movimenti trotzkisti e maoisti, sindacalismo di base o meno, unione degli studenti e degli operai e chi più ne ha più ne ricordi.



Oggi però il punto, se non si vuol scivolare nel sarcasmo parastorico, è un altro: il punto è che le fabbriche vengono robotizzate non per l’abbondanza di manodopera, ma perché in Cina gli operai sono troppo pochi rispetto alla massa che si rivelerebbe necessaria per mantenere bassi i prezzi e quindi competitiva un’economia che invece di puntare sull’innovazione ha fatto dei prezzi il proprio mantra. 



Ciò che avviene in Cina ci dice, in altri termini, che nella grande potenza mondiale sta iniziando un drammatico confronto tra le condizioni di lavoro in cui sono costretti centinaia di milioni di esseri umani e quell’aggroviglio di comunismo e capitalismo selvaggio che ha preso piede in quelle immense terre. Ci dice che la risposta del regime alla richiesta, sempre più pressante, di giustizia che giunge da parte di tanti operai e contadini è semplicemente la loro soppressione. Intendiamoci, non la soppressione fisica delle persone, ma la soppressione della funzione. Il che, a ben vedere, però, a lungo andare rischia di non essere poi tanto diverso.



La seconda economia del mondo, la prima per numero di abitanti, si scopre cioè in balia di una crescita che inizia a rallentare e per rispondere, è costretta a cercare nuove terre da sfruttare (l’Africa equatoriale ormai è un immenso fiume giallo) ovvero a espellere masse di persone dal circolo produttivo. Com’è strano, per me almeno, vedere la Terra Promessa del comunismo trasformata in un girone infernale in preda alle più brutali leggi dell’economia capitalistica!

Perché la cosa bislacca è che ai dirigenti cinesi non sembra nemmeno passare per la testa l’idea che una possibile risposta ai loro (indubbi) problemi, e anzitutto alla necessità di sfamare alcuni miliardi di persone, e, insieme, di assicurare loro uno sviluppo, si nasconda nell’adozione di un capitalismo diverso, meno selvaggio e più umano, nel quale le condizioni di vita dei dipendenti e dei lavoratori non siano tanto drammatiche. Un sistema produttivo, cioè, che scopre il sindacato libero, un mercato regolato, una crescita regolare e non onnivora e cannibalesca.

La notizia non è che in Cina spariranno gli operai, ma che per sostenere l’economia i dirigenti sono costretti a fare a meno di essi: come se, almeno fintanto che le manifatture esisteranno, invece, non ci sarà sempre bisogno di qualcuno che sappia costruire un oggetto cui poi lo si potrà vendere. Senza entrate, senza reddito, infatti, chi acquisterà quei beni? La capacità produttiva cinese non potrà certo essere assorbita dal resto del mondo! 

A Pechino e dintorni, cioè, ci si ostina perciò a non vedere come i salari da fame di tecnici e operai specializzati non possano essere il petrolio che droga il mercato e tiene bassi i prezzi dei beni in modo tale da poterli vendere in giro per il mondo. Fabbriche robottizzate da tempo sono sparse per il nostro pianeta, ma a nessuno in Europa è venuto in mente di licenziare 1600 persone su 1800 per guadagnare di più e più in fretta. Forse perché la nostra è una civiltà che, pur tra mille contraddizioni, ha sviluppato un’antropologia decisamente diversa da quella “Pechino style”?

Forse sì, o forse anche perché il problema non è “operai sì, operai no”, ma “quale lavoro” per “quale uomo”? Cioè convincerci che il lavoro è una cosa buona, e che senza lavoro ogni uomo rischia di essere un po’ meno uomo, un po’ meno libero. 

Letta così la notizia cinese sembra meno preoccupante. Almeno fin quando non si fa mente locale a quelle migliaia di esseri umani che si ritroveranno sacrificati non sull’altare della tecnica, bensì sul Moloch del Pil e della Borsa.