La riforma della Pa in discussione in Parlamento, seppure ancora da completarsi e in attesa dei decreti attuativi, sembra contenere alcuni elementi molto interessanti sui meccanismi di gestione della dirigenza pubblica, che potenzialmente possono portare a dei miglioramenti sensibili in termini di efficienza e di giustizia. Tre in particolare sono i punti positivi: l’abolizione del Ruolo unico e la divisione in fasce, gli incarichi a tempo determinato di 4 anni più 2 e il richiamo alla formazione permanente.
In sostanza sembra si possa scalfire l’inamovibilità della dirigenza pubblica dando un incentivo positivo, la possibilità di crescere a livelli più nobili dell’amministrazione, e negativo, l’interruzione del rapporto di lavoro. In questo modo si crea potenzialmente un sistema con maggiore turnover e maggiore possibilità di ingressi dall’esterno. In più si pensa a dare degli strumenti di formazione per aiutare quanti non sono del tutto adeguati al compito e a raggiungere gli obiettivi.
La vera sfida sarà ora identificare degli obiettivi concreti e sostanziali che vengano effettivamente utilizzati a scopo valutativo evitando un semplice spoil system politico e consentendo progressi di carriera basati sui risultati professionali oggettivi e non sull’appartenenza a gruppi di vario genere. Qualche idea in proposito la rimando a una discussione più tecnica.
Anche importante è il richiamo alla formazione permanente che spero non sia solo un adempimento formale o nozionistico, ma che si focalizzi sulle competenze manageriali e professionali sempre più necessarie per governare la complessità e per creare fiducia nelle organizzazioni. Una buona formazione sarebbe a mio avviso la partecipazione dei dirigenti pubblici a network misti pubblico/privato in modo da incentivare scambi di best practices ed evitare l’autoreferenzialità e l’isolamento.
La parte che invece personalmente giudico un po’ conservativa e invece quella relativa alle forme di concorsi pubblici centralizzati a livello nazionale e le forme di esame curate dalla Sna (già Sspa). La mia idea è che queste misure, che intendono garantire imparzialità di giudizio, rischiano di “ingessare” il sistema, di limitare gli incentivi alla buona performance e di risultare poco attrattive per i “talenti” (profili con esperienza internazionale, start uppers, manager con esperienze miste). Le domande che dobbiamo porci sono: le attuali forme di concorso pubblico sono attrattive? Come vengono pubblicizzati i bandi? Cosa si comunica all’esterno? In che tempi e costi vengono gestite le assunzioni e i ricorsi?
Certamente dipenderà da come verranno costruite queste prove selettive e da chi verranno fatte, ma utilizzare la Ssa, garanzia di istituzionalità, rischia di creare un sistema troppo nozionistico e legale centrico invece che uno fondato sulla collaborazione, sull’innovazione e sul dinamismo. Meglio sarebbe misurare i risultati concreti in termini di risparmi nei costi di gestione, la valorizzazione dei propri collaboratori, la soddisfazione di chi usufruisce del servizio e non solo gli aspetti di “certificazione”.
Allo stesso modo la centralizzazione dei concorsi a livello nazionale toglie responsabilità e valorizzazione ai territori e ai manager di struttura. Un buon manager dovrebbe saper scegliere buoni collaboratori e dovrebbe avere autonomia nel farlo. Stessa cosa dovrebbe valere per un buon politico. So bene che in questo modo si vuole evitare l’assalto alla diligenza da parte dei “cacicchi locali”, ma un sistema che parte avendo come presupposto la “devianza” dei propri membri non può avere grande successo.
In generale il tema più ampio che emerge, sia in relazione ai concorsi pubblici che al sistema di appalti che al ruolo delle partecipate, è quello della discrezionalità versus imparzialità. La pressione degli scandali, della cattiva gestione e della corruzione incentivano il legislatore a ridurre gli spazi di discrezionalità, ma l’imparzialità appare più una chimera che un obiettivo raggiungibile. Le procedure attuali di concorso pubblico e di appalto pubblico infatti non sono affatto imparziali, ma avvantaggiano, per esempio ,chi è interno al sistema rispetto a chi ne è al di fuori, spesso non contribuendo a scegliere il migliore collaboratore o fornitore o chi ha determinati requisiti più che risultati professionali. Questa pressione per l’imparzialità a mio avviso non è quindi né corretta, né produttiva.
Un certo margine di discrezionalità è necessario per creare fiducia, collaborazione, per valorizzare le scelte e l’operato dei dirigenti pubblici. Se non ho margine di scelta dei collaboratori, dei fornitori e delle strategie su cosa dovrei essere effettivamente giudicato? E come ho modo di esprimere il mio valore? L’imparzialità delle procedure pubbliche penalizza i buoni dirigenti molto più dei cattivi. Le migliori organizzazioni, infatti, sono quelle che permettono innovazione e valorizzano i propri membri a tutte le latitudini.
Immaginare il dirigente pubblico come un semplice esecutore delle procedure lo fa somigliare molto più al burocrate che al manager e di conseguenza porta a valutare più la conformità degli atti che non il loro risultato in termini di servizio al cittadino. Questo è il punto. I rischi della discrezionalità possono essere limitati con la trasparenza e con un monitoraggio serio ex post dei risultati.
Con la nuova riforma sarà probabilmente molto più facile d’ora in poi premiare o sanzionare le scelte positive o negative, ma senza sufficiente discrezionalità nell’attività dei dirigenti pubblici questa misura perde di gran parte del senso. Il punto è capire allora quanto i rischi della discrezionalità siano pericolosi rispetto alla spersonalizzazione e alla lentezza della presunta imparzialità e come minimizzarli.
Il mondo attuale richiede velocità, passione, motivazione, decisioni e scelte rapide. Le persone giuste al posto giusto e correttamente incentivate. Questo vale per tutte le buone organizzazioni, compresa la Pubblica amministrazione in Italia.