In uno dei suoi celebri successi degli anni ’70, Bryan Ferry – grande icona della musica pop-rock – cantava i segni del tempo (“Sign of the times” era appunto il titolo della canzone): noi viviamo, moriamo, ridiamo, piangiamo; noi non sappiamo perché. Come a dire, i tempi cambiano e noi non capiamo perché, ciò che possiamo fare è coglierne i segni e andare dietro al tempo che cambia. Certo ciò non significa rinnegare ogni valore perché i tempi sono cambiati, semmai capire come i valori possono essere riaffermati in nuove forme e modalità.
Venendo a noi, ieri primo maggio, festa del lavoro: un giorno solitamente in cui radio e televisioni sono occupate – oltre dalla musica del concertone di piazza San Giovanni – dalla voce del sindacato. Ma quest’anno, se c’è una voce che ha risuonato nell’etere – oltre purtroppo a quella dei black bloc – è stata quella di Matteo Renzi che ha presenziato all’apertura di Expo: “Oggi diamo una risposta ai signori professionisti del non ce la farete mai. Oggi inizia il domani”.
Non è solo la grande vetrina di Expo a privilegiare la voce del premier rispetto a quella del sindacato. È che, per tornare a Bryan Ferry, i tempi sono cambiati e qualcosa con essi. La politica dimostra di averlo compreso, e ciò è evidente da tempo. Ora tocca al sindacato. È ciò che emerge anche dall’intervista di Giorgio Napolitano pubblicata ieri da Repubblica. L’ex Capo di stato, che di trasformazioni politiche e sociali ne ha viste diverse, non usa mezze misure: “Il sindacato si è arroccato e ora si deve rinnovare”.
Quando parliamo di sindacato, occorre sempre tener presente che i problemi sono diversi sul piano federale da quello confederale. Circa il primo, ogni anno sono decine e decine i Ccnl che vengono rinnovati e anche gli accordi aziendali che i sindacati di categoria stipulano; su questo piano ci si attende certamente – oltre al riordino dei settori in vista dei criteri della rappresentatività – che cresca la capacità contrattuale degli attori in gioco, soprattutto se si pensa alla contrattazione aziendale; senza capacità di far crescere redditività e produttività, la contrattazione aziendale è un paradigma astratto. Circa il secondo livello, la questione è un po’ più ingarbugliata. Renzi e il suo governo da tempo procedono senza nemmeno interpellare il sindacato, vogliono le riforme e le fanno, piacciano o meno al sindacato.
In una società complessa, il sindacato non è un corollario della democrazia, ne è attore fondamentale. La patologia del consociativismo italiano – dove per troppo tempo politica e sindacato non sono riusciti a procedere in modo partecipativo se non per affari di Stato scaricati sulle spalle dei contribuenti (vedi casi Sulcis, Alitalia, Alfa Romeo, ecc.) – ha portato a questa rottura, complice anche alcune tensioni in seno al percorso di riforma del lavoro. L’attenzione volta in modo preponderante all’introduzione delle forme flessibili ha finito col trascurare le nuove tutele e ha generato conflitti tra politica e sindacato. Paradossalmente, proprio col governo che sta procedendo nella direzione della flexicurity, si registra la rottura più forte.
Tuttavia, in alcuni ambienti sindacali, questa necessità di rinnovamento è piuttosto sentita e condivisa; non si pensi solo alla Cisl. Anche in casa Cgil, si sta capendo che o il sindacato si trasforma o rischia di implodere. Pochi giorni fa,Il Fatto Quotidiano ha scritto di una riunione segreta con Susanna Camusso e gli altri membri della Segreteria Nazionale, oltre ai segretari di categoria, regionali e delle grandi Camere del lavoro. Particolari di rilievo: Maurizio Landini assente e riunione in corso d’Italia non al civico 25 – sede della Cgil – ma al civico 1, presso NH Hotel.
Lo stesso giornale riporta che obiettivo della riunione era “fare il punto della situazione interna al sindacato, mettere a verifica una linea politica che nell’ultimo tempo in molti, anche nell’area di Camusso, vedono pericolosamente bloccata; ma, soprattutto, andare alla resa dei conti con la Fiom con cui Camusso mantiene ancora il filo del dialogo nato sull’onda della comune battaglia contro il Jobs Act”. Quel dialogo, però, per alcuni deve essere spezzato in virtù del ristabilimento dei rapporti unitari con Cisl e Uil.
La notizia, ignorata da tutti gli altri organi di informazione, è di rilievo. E rilevanti sono le conferme che tale notizia trova in ambienti vicini ai vertici del sindacato di corso d’Italia.
Chi pensa che del sindacato si possa fare a meno pensa male. Il sindacato è attore fondamentale nei processi di mediazione sociale. Oggi però al sindacato è chiesto di essere anche attore di trasformazione, per troppo tempo esso ha rinunciato a governare processi di cambiamento in atto in favore della difesa di interessi precostituiti, in particolare del lavoro pubblico e dipendente. Oggi la politica non glielo permette più, ma soprattutto è la sua base a non permetterglielo più.
Renzi ha smascherato questa situazione, i sindacati lo hanno capito. Stanno cercando di farne fronte. Il sindacato datoriale non è esente da questi problemi. Renzi sta consolidando la sua leadership, indietro non si torna. Abbiamo bisogno di attori che dialoghino con il suo governo. L’opposizione politica è inesistente, Bersani che dice “c’è in gioco la democrazia” è il canto del cigno di un sistema. Una nuova e sana dialettica può nascere solo dal rinnovamento dei corpi intermedi e delle forze sociali. I tempi, come cantava Bryan Ferry, sono cambiati.
In collaborazione con www.think-in.it