Matteo Renzi, in piena campagna elettorale per le regionali, ha scelto di rispondere alla sentenza della Corte Costituzionale (non gradita come ci ha fatto prontamente sapere nel suo intervento alla “Quarta Camera”, quella presieduta da Giletti) sulle pensioni spendendo il meno possibile. Si prevede, infatti, di investire appena 2 miliardi sugli 11 che sarebbero necessari per rimborsare tutto il pregresso a tutti i pensionati interessati. Il Consiglio dei ministri, facendo propria la proposta del suo “lider maximo”, ha, quindi, previsto un parziale (potremmo dire parzialissimo) rimborso che verrà dato, con la pensione di agosto, a coloro che hanno un trattamento tra 3 e 6 volte il minimo (3 mila euro lordi). Un intervento che intercetta così, con importi diversi, circa 4 milioni di pensionati (ben 1,2 milioni, tuttavia, non riceveranno nulla).



Inizia, quindi, il tormentone elettorale sulla “una tantum” di 500 euro, diventata una sorta di “bonus”stile 80 euro nella comunicazione del premier, che opererà a titolo di rimborso degli arretrati. Una cifra, secondo Palazzo Chigi, da intendersi al netto delle tasse e media. In questo senso si verificherà, per assurdo, che chi ha una pensione più bassa, vicina cioè alla soglia di 3 volte il minimo, prenderà meno di chi ha un trattamento più alto.



Dopo circa 20 anni dalla prima storica “Riforma Dini” si continua, quindi, per forza o per amore, a parlare del sistema previdenziale e della possibilità di riformarlo come scelta fondamentale per costruire un nuovo welfare adeguato alle sfide del presente. 

Un presente che ci racconta un Paese con oltre 14 milioni di persone inattive per cui l’Italia si aggiudica, in Europa, la poco ambita maglia nera. Un popolo, concentrato nella fascia di età tra i 25 e i 54 anni, fatto di studenti, casalinghe, ritirati dal lavoro, giovani (ma non solo), che “ufficialmente” si dichiarano disoccupati e che probabilmente la pensione (non l’indicizzazione) non la vedranno mai e per i quali le urgenze sociali sono, ahimè, altre e molto più legate alla stringente quotidianità.



È opportuno evidenziare peraltro, come sottolinea anche un recente studio dell’Associazione Bruno Trentin, che i due terzi degli inattivi si dichiara disoccupato, senza però soddisfare le due condizioni necessarie per rientrare nella definizione standard di disoccupazione: ricerca attiva di un lavoro e disponibilità di iniziarlo a breve. Per questi, quindi, la prima risposta sembra essere ovviamente rientrare nel circolo “virtuoso” del mercato del lavoro. C’è da sperare che il Jobs Act operi per dare strumenti concreti in questa direzione. 

È, tuttavia, arrivato il tempo, a prescindere da questo, per una rottamazione dello Stato Sociale come lo abbiamo conosciuto e per il suo complessivo ripensamento. Vi è, infatti, la necessità di andare oltre e pensare a un moderno welfare dedicato ai molti, non solo gli inattivi di cui sopra, che forse la pensione non la vedranno mai e per i quali si deve immaginare un sistema di tutele sociali diverso. Sarà la #svoltabuona?