Si è tenuto il 6 maggio alle 10:30 nella sede del Cnel un seminario sulle pensioni con i maggiori esperti di previdenza, organizzato tra gli altri da Giuseppe Pennisi, consigliere del Cnel e professore all’Università Europea di Roma e alla Unilink. Al centro del dibattito c’è stata la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il blocco delle perequazioni delle pensioni all’inflazione negli anni 2012-2013. La misura era stata voluta dal governo Monti nel 2011.
Professore, che cosa ne pensa della sentenza della Corte Costituzionale?
Chi non è d’accordo con questa sentenza ha ragione da un punto di vista sostanziale, però bisogna cambiare la Costituzione. Fare pagare una tassa a determinate categorie e non a tutti comporta però dei problemi molto rilevanti. È come se, per assurdo, si decidesse di creare una nuova tassa solo per le donne, o per le persone celibi, o magari per i musulmani. La Costituzione italiana vieta tutto ciò in modo chiarissimo.
La misura del governo Monti però non era una tassa, ma il blocco della perequazione…
Quella prevista dal governo Monti altro non era che un’imposta speciale che riguarda i pensionati. Anche una sentenza della Corte dei Conti della Calabria è andata nella stessa direzione seguita poi dalla Corte Costituzionale. L’Italia aderisce inoltre alla Convenzione per i diritti dell’uomo che vieta qualsiasi discriminazione anche sul piano fiscale.
Davvero c’era il rischio di un intervento della Corte per i diritti umani?
L’Italia è già stata condannata in passato dal tribunale di Strasburgo per altre questioni simili a questa. Qualora quindi questa Corte Costituzionale avesse voluto smentire le sue stesse precedenti sentenze, i cittadini che avevano fatto ricorso inizialmente si sarebbero rivolti alla Corte per i diritti umani. A quel punto la Consulta avrebbe perso e ci avrebbe pure fatto una figuraccia memorabile.
E quindi?
Quindi io la chiamerei “Cronaca di un buco annunciato”. Non si tratta certo della prima sentenza della Corte Costituzionale in materia, anzi è la quinta o la sesta.
Ha senso parlare di equità quando ben pochi degli attuali ventenni vedranno 1.400 euro di pensione al mese?
Il problema non è questo. L’articolo 3 della Costituzione, secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”, prevede che il trattamento debba essere uniforme nei confronti di tutti gli italiani. Nelle altre sentenze la fattispecie era analoga. Il Parlamento, su proposta del governo, aveva imposto dei contributi di solidarietà. Ma per la Corte Costituzionale, se c’è bisogno di un maggiore gettito, devono contribuire tutti e non soltanto una categoria.
Questa equità non è in fondo un’utopia nel momento in cui abbiamo 8 milioni di pensioni minime?
Il vero problema dell’Italia è un altro, e cioè che abbiamo cambiato il sistema da retributivo a contributivo prevedendo un periodo di transizione di 18 anni, quando in Svezia ne sono bastati tre. E tutto questo su richiesta dei sindacati per salvaguardare tutti i quadri sindacali e tutti coloro che avevano beneficiato della cosiddetta “legge Mosca”. Quest’ultima ha fatto sì che tutti i dirigenti di partiti e sindacati che non avevano pagato contributi fossero regolarizzati sulla base di un’autodichiarazione.
Che cosa si può fare per i giovani?
C’è un solo modo per affrontare la questione della pensione dei giovani: occorre abbassare la contribuzione complessiva, per consentire a tutti di avere una “seconda gamba” previdenziale, cioè quella privata.
(Pietro Vernizzi)