Più o meno in modo unanime, tutti gli organi di informazione hanno ripreso e commentato le dichiarazioni di questi giorni del Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi che – nel suo discorso all’assemblea annuale privata degli industriali – ha detto: “Servono regole radicalmente nuove della contrattazione collettiva. Bisogna rivedere il modello contrattuale per assicurare la certezza dei costi, la non sovrapponibilità dei livelli di contrattazione e legare strettamente retribuzioni e produttività”.

Il dialogo sociale tra le parti sta entrando nel vivo, le dichiarazioni di Squinzi non sono certamente una sorpresa, anche nel merito. E naturalmente nessuna sorpresa nemmeno nella reazione delle sigle sindacali: Cisl e Uil sono parse molto in linea con le parole di Squinzi. Ci ha pensato il solito Maurizio Landini ad agitare un po’ le acque: “Dopo cinque anni passa la linea della Fiat. Con l’introduzione del salario minimo legale e la legge sulla rappresentanza che ha in mente il governo Renzi il disegno sarà completato: fine del contratto nazionale”.

Al di là di equilibri tra il livello nazionale e quello aziendale/territoriale che il nuovo modello contrattuale definirà, sono due i punti che rilevano in questo tema.

1) È chiaro – lo diciamo da tempo – che la direzione della contrattazione sarà più decentrata, il baricentro della contrattazione si muoverà verso il basso; le aziende che chiedono di poter contrattare direttamente devono poter essere nella condizione di poterlo fare al meglio. Ma, a parte il fatto che la contrattazione aziendale – che non è un’invenzione di Marchionne – è una prassi che ha una sua storia significativa in Italia, la cosa curiosa è che per molti questa sia oggi sinonimo di crescita della produttività e della redditività. Si da oltretutto per scontato che il sistema e gli attori (che vivono di persone) siano pronti per contrattare aziendalmente; le aziende, per esempio, lo sono molto poco. La verità è che molti settori, anche sul piano della contrattazione, hanno conosciuto poca innovazione. Quindi, o si cresce dal punto di vista della capacità contrattuale, o il livello aziendale – dove gli attori sono meno pronti rispetto a quello nazionale – più che produttività crescerà conflitti. In sintesi, il bisogno reale è quello di un ammodernamento del sindacato, anche nei suoi settori e nelle sue federazioni (che sono appunto i soggetti protagonisti della contrattazione).

2) Landini vede bene quando illustra le intenzioni del governo: legge sulla rappresentanza e salario minimo. Per quanto riguarda il primo punto una legge pare inevitabile – lo stesso Landini fino a pochi mesi fa addirittura la chiedeva. A distanza di quasi un anno e mezzo dall’intesa sulla rappresentanza e la rappresentatività – che ne ha definito i criteri – siamo sostanzialmente allo stesso punto. Quindi, non si può chiedere autonomia quando non si è capaci di darsi delle regole e rispettarle. È chiaro che una legge che regoli i criteri della rappresentanza è – come ripete qualcuno – una sconfitta per l’autonomia delle parti sociali, ma data l’incapacità di queste di accordarsi, la legge pare l’unica soluzione per definire criteri di esigibilità degli accordi e chi può rappresentare chi. Per quanto riguarda invece il secondo punto, il salario minimo, il Jobs Act ne prevede un’introduzione limitata e sperimentale. Certo, la novità è importante, e la direzione pare irreversibile. Non ci sono dubbi che ciò ridurrà il potere del sindacato a livello nazionale, cosa che appunto non piace a Landini. Tutto va tuttavia nella direzione del contenimento del conflitto.

Curioso però che, ancora una volta, ci troviamo a discutere di produttività solamente in relazione alle regole del lavoro. Per carità, le regole – se non sono buone – fanno danni. Ma se, per esempio, pensiamo non tanto al nostro costo del lavoro, che è in linea con la media europea, ma al costo del lavoro rapportato all’unità di prodotto (clup), ci accorgiamo che la Germania ha un clup inferiore a quello italiano del 40% e Francia e Inghilterra del 30%. 

Cosa significa? Che il loro sistema produttivo si è innovato. Il nostro, come ricordato di recente da Ignazio Visco, è fermo ai vecchi modi di produrre. La scarsa innovazione è il problema vero del nostro Paese ed è la ragione del nanismo delle nostre imprese, cosa che in tempo di economia globale rischiamo di pagare a caro prezzo. Il salto decisivo che è chiesto al nostro sistema economico è quello della sua cellula fondante, ovvero l’impresa. Ma l’impresa non è l’imprenditore, l’impresa è un sistema organizzato dove il capitale umano deve crescere: ecco la vera sfida del nostro Paese oggi.

 

In collaborazione con www.think-in.it