Esattamente cinque anni fa, il 15 giugno 2010, ha inizio quella che in molti hanno definito la “rivoluzione Marchionne”. A Pomigliano (NA), in occasione della re-start della newco del gruppo Fiat che riporta in Italia la produzione della Panda delocalizzata a Tychy (Polonia), il Lingotto e Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic, Ugl Metalmeccanici e Quadri firmano il contratto che cambia gli assetti della rappresentanza sindacale. Come noto, l’accordo non è firmato dalla Fiom-Cgil.
Di fatto si apre una nuova era per le parti sociali che stanno oggi cercando una sintesi con un nuovo accordo interconfederale. Va tuttavia ricordato che senza le firme dei sindacati che hanno scommesso sul piano industriale Fabbrica Italia, gli stabilimenti Fiat – invece che tornare a pieno regime – avrebbero chiuso. I detrattori del piano industriale di Marchionne e dei sindacati che hanno firmato accordi con Fiat dovrebbero quindi riconoscere di avere sbagliato tutto. In realtà, oggi sono tutti troppo impegnati su altri fronti di denigrazione.
Dopo l’intesa del 28 giugno 2011, Fiat esce da Confindustria e – in virtù dell’ articolo 8 della manovra d’estate – estende agli oltre 80.000 dipendenti Fiat e Cnh il contratto di Pomigliano, che ambisce a porsi come contratto di “primo livello”: si tratta, infatti, non di un contratto in deroga al Ccnl e quindi di “secondo livello”, ma di un contratto del tutto indipendente dal sistema confederale e parallelo alla contrattazione collettiva nazionale, comunque conforme alle leggi dello Stato, come riconosciuto dal Tribunale di Torino il 16 luglio 2011 e, in ultima istanza, dalla Corte Costituzionale il 23 luglio 2013. Ciò dà origine a un precedente storico e importante per le nostre relazioni industriali.
La Fiom – che chiede l’intervento della Giustizia – reagisce non tanto alla nuova organizzazione del lavoro, quanto alle modalità con cui questa si presenta e al nuovo sistema di regole entro cui viene incastonata: come lo stesso Maurizio Landini riconosce nel suo libro “Forza Lavoro” (Feltrinelli 2013), “noi non volevamo che si derogasse al Contratto collettivo nazionale del lavoro e ci siamo opposti con tutte le nostre forze”. Nessun attacco quindi ai diritti fondamentali del lavoro. Ciò la dice lunga sulle mancanze della nostra informazione incapace di capire cosa in realtà stava avvenendo a Pomigliano nel 2010 e su quanto la Fiom abbia strumentalizzato la vicenda: le tute blu della Cgil non volevano che si derogasse al Ccnl, cosa discutibile ma legittima se posta in questi termini.
Quali siano in realtà gli effetti di questa vicenda oggi è molto chiaro: il potere di veto del sistema interconfederale viene stoppato, contrattare al di fuori del sistema è legittimo, dice il giudice. Questo indebolimento delle confederazioni è ciò che ha permesso a Matteo Renzi di fare delle riforme senza nemmeno interpellare le parti.
Chi tuttavia vede nel caso Fiat l’inizio della contrattazione aziendale, vede una realtà molto parziale: al secondo livello si contratta da sempre, le deroghe ai contratti nazionali ci sono da sempre. I supporter della contrattazione aziendale a ogni costo dovrebbero spiegare quali margini di crescita questa ha in un sistema produttivo in cui il 98% è Pmi. Teniamo conto che a un grosso segmento del mercato il Ccnl continuerà a essere molto utile – anche perché molte imprese non sono sindacalizzate e non hanno nessuna voglia di esserlo – e, soprattutto, che per contrattare aziendalmente bisogna essere pronti e capaci di far crescere produttività e redditività.
In sintesi: il grande passaggio che il caso Fiat segna, più che di natura derogatoria, è in materia di rappresentanza e di esigibilità dei contratti. I protagonisti sanno bene che per rendere i contratti esigibili occorre dare regole chiare alla rappresentanza e fare in modo che possa essere esercitato un potere sanzionatorio su chi non rispetta accordi. Per questo Confindustria, Cgil, Cisl e Uil stanno dando seguito attuativo all’intesa sulla rappresentanza del gennaio 2014, che tuttavia non è stata estesa alle altre parti datoriali.
Ecco perché la questione dell’esigibilità dei contratti è finita all’interno dell’agenda politica: sul salario minimo il governo è meno deciso, ma sulla rappresentanza Renzi, come Marchionne, lo è molto.
In collaborazione con www.think-in.it