Colpo di scena: proprio mentre il sindacato sembra perdere terreno nella lotta politica e certamente perde interesse agli occhi di un Governo, quello di Renzi, che almeno apparentemente, punta a far tutto da solo e a rompere schemi stantii e dai tempi ottocenteschi, ecco che dal cilindro del dibattito spunta, coniglio inatteso ma non repulsivo, il tema dell’unità sindacale. Oh, intendiamoci, non è mica un argomento nuovo, un problema mai sentito, una questione sconosciuta.



Anzi. L’unità sindacale, lo ricordano certo i meno giovani, fu il mito degli anni Settanta, e i riflessi di quella utopia (perché tale allora si rivelò) si trascinarono stancamente fin ben dentro gli anni Novanta. Quando la discussione stagnava, quando i temi sul tappeto erano troppo duri ma i toni volevano moderarsi, quando si incontravano i reduci delle “mitiche lotte sindacali” che si svilupparono tra 1968 e 1978, allora giungeva, come una eco di un suono lontano, immancabile, la voce di chi rilanciava il dibattito sull’unità da farsi, e al più presto, tra Cgil, Cisl e Uil. 



Se ne persero poi le tracce, tranne che in qualche relazione congressuale sindacale, in particolare nelle pagine centrali, laddove tutto si mescola e l’attenzione degli ascoltatori cade a picco mentre le palpebre dei presenti calano sugli occhi stanchi. O in qualche convegno tra ex, e non importa se fossero ex sindacalisti, ex sessantottini, o ex politici.

Perché oggi dunque l’argomento torna d’attualità? Perché tra Jobs Act e ammortizzatori, tra Whirlpool e Fiat, tra pensioni e Grexit, c’è tempo per occuparsi del destino di Cgil Cisl e Uil? Le risposte sono molteplici. Proviamo a metterle in fila.



Anzitutto domandiamoci da dove prenda spunto questo argomento. Il primo a rilanciare il dibattito fu Renzi. Come mai? Per una questione politica: il suo Pd ha bisogno di un sindacato riformista perché, come insegnano i risultati veneziani, lentamente sta sprofondando nella palude del governare, laddove le decisioni sembrano sempre destinate a un rinvio perché altri temi urgono, laddove ogni questione è sempre legata ad altre vicende e nulla mai ha un confine certo e definito. Questo panorama, che terrorizza Renzi più di qualsiasi sondaggio, si esorcizza anche attraverso il consenso delle parti sociali, ma per far questo occorre anzitutto sconfiggere e isolare i massimalisti, cioè, nella visione renziana, la Cgil.

Secondo punto. Si sta parlando di un tema vero, di un argomento serio o è tutta solo una boutade pre-estiva? No, il tema è serio, tant’è che i vertici nazionali dei tre sindacati si sono subito dichiarati disposti ad affrontarlo, a metterne in cantiere la realizzazione. Segno che anche tra le organizzazioni dei lavoratori è chiara la coscienza che così non si va lontano: troppi sondaggi dicono che gli italiani aderiscono ancora ai sindacati ma non ne apprezzano il modello, l’organizzazione, le risposte, le modalità operative. Dunque c’è bisogno di cambiare e Camusso, Furlan e Barbagallo lo sanno bene. 

Qui si nasconde però il busillis, come direbbero i “sapienti” latinisti. Già perché, dopo aver verificato che l’unità serve, che non se ne può fare a meno e che la si vuole, arrivano i problemi veri, concreti, non eludibili con il volemose bene o la sola buona volontà. Perché mai come oggi il panorama sindacale sembra esploso, con associazioni che vagano alla ricerca di un “ubi consistam”, altre che stanno attraversando profonde trasformazioni interne e sono nel mezzo del guado, e altre infine che, per non saper avanzare, indietreggiano fin verso gli anni Settanta.

Un panorama forse preoccupante, forse desolante, di certo inquietante. E che spiega benissimo il perché della pesante sconfitta subita da Cgil Cisl e Uil nelle ultime elezioni delle Rsu nella Pubblica amministrazione, laddove si sono invece affermate le liste espressione delle associazioni professionali: segno di un forte bisogno di identità, ma anche di un urgente richiesta rivolta dai lavoratori statali, comunali, della sanità e della scuola, ai tre confederali, di uscire dal marasma dell’indistinto, dell’appello generico, del contratto onnicomprensivo e che non premia nessuno. Certo se la risposta a quell’invocazione è stata la proclamazione unitaria dello sciopero dalla prima ora degli scrutini, c’è da chiedere ad alcuni soggetti a quale unità sindacale aspirino! A meno di pensare che nell’unità rientrino anche i Cobas, che hanno sempre fatto del blocco degli scrutini una bandiera. 

C’è poi un altro argomento che può spiegare questa corsa verso il sindacato unitario/unico. È la crisi economica che sta colpendo un po’ tutte le associazioni di rappresentanza, Confindustria in testa. Da qui alcune fusioni recenti (si pensi all’accordo tra le tre centrali cooperative, o al passaggio di pezzi di Api in Confindustria), o le riorganizzazioni che sono state intraprese. Ma le necessità economiche non possono da sole reggere il peso di una simile riforma.
Resta poi la questione centrale, e cioè se l’unità/unitarietà serva oppure no. Per servire, certo che serve, ma serve se serve, come direbbe Monsieur de Lapalisse. Cioè serve se è utile, non se la si usa per risolvere problemi altri da quelli che essa dovrebbe affrontare. L’unità sindacale, infatti, non è un fine ma un metodo e ogni metodo, come diceva Gianfranco Contini, è buono quando è buono. Cioè essa sarà utile se servirà per rivedere il modello contrattuale, per aggiornare l’attuale rispetto alle sfide che il Paese ha davanti, per rafforzare la sede principale della contrattazione di produttività, il 2° livello, aziendale o territoriale, per avere relazioni industriali più partecipative, per fare contratti pubblici che premino i migliori e colpiscano i fannulloni, per riformare il welfare in senso comunitario e mutualistico pur mantenendo l’universalità, per far entrare i lavoratori nella gestione del mercato del lavoro e delle politiche attive, nella gestione partecipativa delle aziende, per una riforma sussidiaria del rapporto tra società e Stato. 

Se è così allora l’unità va fatta subito, e ogni problema pratico si può superare. Se invece essa verrà usata per mediare tra posizioni inconciliabili, perché ideologiche o fuori dal tempo, per bloccare ogni riformismo sindacale, per impedire a Renzi (o a qualunque Governo) di muoversi e prendere decisioni, per rinviare sine die i conti con se stessi e i propri errori, per rimettere al centro di tutto i contratti nazionali così come essi sono oggi, per non riformare la Pubblica amministrazione, allora l’unità sindacale non serve, non è un buon metodo. 

Di fondo dunque la questione più che l’unità in sé, riguarda l’intento con cui si guarda a essa. Se l’obiettivo è il riformismo, allora ci sono spazi per riuscire laddove negli anni Settanta l’ideologia fallì. In caso contrario, speriamo che si tratti solo di un dibattito tardo primaverile o pre-estivo. Uno dei tanti, e nemmeno il più interessante tra tutti. 

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