Se chiedessimo agli esperti di diritto del lavoro che cosa sono le relazioni industriali, facilmente questi risponderebbero che si tratta di un’attività di elaborazione di norme relative ai rapporti tra impresa e lavoro e, in particolare, all’impiego del lavoro e alle controversie che a tale impiego possono seguire, effettuata in prevalenza da soggetti collettivamente organizzati.



Oggi ci rendiamo più che mai conto di quanto, tuttavia, l’aspetto relazionale di tale attività – che non a caso si chiama “relazioni industriali” – sia determinante. La crisi dei corpi intermedi – e quindi anche dei sindacati dei lavoratori e delle associazioni d’impresa – è un tema sempre più attuale e pressante. Da una parte, l’irrompere dell’economia globale ha messo a nudo la lentezza e l’improduttiva ritualità di alcuni processi; dall’altra, sono emersi anche dei limiti nella capacità stessa di identificare soluzioni innovative e virtuose a livello contrattuale.



Impresa e lavoro, per darsi una prospettiva vera, chiedono sempre di più alla contrattazione – che è la missione fondamentale che un sindacato ha, sia esso del lavoro o dell’impresa – di corrispondere a quelle che sono le esigenze del mercato e di identificare soluzioni innovative capaci di far crescere produttività e redditività. Nel nostro Paese è ormai condiviso il teorema che l’unica possibilità di far crescere produttività e redditività sia la contrattazione aziendale. Ma, come già scritto su queste pagine, si tratta di un teorema molto parziale. La verità è che per crescere produttività e redditività, più che contrattare al “secondo livello”, bisogna contrattare ad alto livello, cioè bisogna farlo bene. Certamente la contrattazione aziendale può dare valore aggiunto, ma in primis il mercato lamenta buone pratiche di contrattazione.



Esistono certamente casi virtuosi: la chimica in Italia ha fatto spesso da apripista, non a caso si è più volte parlato di “formula chimica” e spesso le soluzioni individuate in seno a questo segmento di mercato importante sono state un riferimento per il sistema e, anche, per accordi sulla produttività.

All’inizio dell’anno era proprio toccato alla chimica tentare di risolvere il problema delle dinamiche inflattive che, paradossalmente, mettevano i lavoratori nella condizione di dover restituire soldi all’impresa. Ma in quel momento nessuna soluzione, anzi una rottura che aveva fatto molto arrabbiare anche Giorgio Squinzi che, ricordiamo, viene proprio da quel settore.

Oggi gli stessi protagonisti, in relazione a un problema così complesso e delicato, sono vicini a una soluzione, a conferma di quanta capacità e partecipazione c’è in questo settore. I maligni hanno spesso mormorato che è un settore ricco e che questo è il motivo della partecipazione. Niente di più sbagliato: qui c’è capacità di elaborare le norme e la chiara consapevolezza che il successo della contrattazione dipende dalla legittimazione degli attori e non dalle vittorie di Pirro.

Nel frattempo, a Torino si sta chiudendo il contratto FCA: il 1 luglio sono convocati anche i segretari generali dei sindacati, segno che ci sarà l’ufficialità delle firme. Il contratto FCA riguarda oltre 80.000 lavoratori. L’indotto che lavora per il Lingotto ne coinvolge circa 500.000. E se, a questo punto, qualche azienda trovasse più conveniente il contratto FCA invece che quello di Federmeccanica?

L’evolversi dei fatti in casa dei chimici e in casa di una parte della metalmeccanica (FCA) – settori storicamente rivali per differenti culture e comportamenti – ci dice che il mercato ha le sue esigenze e, in alcuni casi, non aspetta. Il modello contrattuale del 2009 è scaduto da più di due anni. Cosa stanno facendo le confederazioni? Ma, soprattutto, qual è la loro funzione oggi?

 

In collaborazione con www.think-in.it

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