Ieri Matteo Renzi, all’inaugurazione della nuova funivia del Monte Bianco, ricordava che “l’Italia è la capacità di essere in tutto il mondo un punto di riferimento per l’innovazione e l’ingegneristica, dove siamo leader mondiale e spesso ce lo dimentichiamo”. Nessun dubbio sulle capacità della nostra impresa di esportare il made in Italy nel mondo, poco più di 10 anni fa eravamo la quinta economia più forte. Certo è che ora soffriamo e che fatichiamo ancora molto in termini di crescita e sviluppo, tanto che – nonostante le riforme del Jobs Act – i segnali occupazionali sono tenui anche se da capire per via dell’eccesso di periodiche e differenti rilevazioni. Di questo e altro IlSussidiario ha parlato con il Prof. Pietro Ichino (Senatore del Pd), anche in virtù della recente uscita del suo ultimo libro Il lavoro ritrovato (Mondadori).
Professor Ichino, alla luce delle tante e frequenti rilevazioni circa assunzioni e occupazione che altro non fanno se non confondere le idee, pensa che il Jobs Act stia funzionando?
L’impressione è che un primo effetto importantissimo si stia già verificando: i consigli di amministrazione stanno smettendo di assegnare ai direttori del personale la mission di ridurre al minimo il numero delle assunzioni a tempo indeterminato, perché non considerano più che ne derivi un costo fisso nel bilancio aziendale. Poi c’è qualche prima conferma dell’effetto della nuova disciplina dei licenziamenti nel senso dell’aumento sia delle conversioni da contratto a termine in tempo indeterminato, sia della percentuale delle assunzioni a tempo indeterminato sul flusso generale delle assunzioni: a marzo entrambe le percentuali hanno fatto registrare un netto aumento rispetto all’aumento registrato a gennaio e febbraio, cioè nei due mesi in cui ha operato soltanto l’incentivo economico, costituito dalla drastica riduzione del cuneo fiscale e retributivo.
A proposito di articolo 18, è davvero questo il vero problema del lavoro?
Non è il problema; ma è certamente uno dei maggiori. Ho dedicato i primi due capitoli del mio libro a spiegare perché a mio avviso i suoi effetti sono complessivamente nocivi sia per le imprese che per i lavoratori: in termini di dualismo nel mercato del lavoro, di peggiore allocazione delle risorse umane nel tessuto produttivo, di ritardo nell’aggiustamento degli organici, di abbassamento della produttività media del lavoro. Un altro problema è la chiusura del nostro Paese agli investimenti diretti esteri, cui hanno contribuito sia la pressione fiscale eccessiva e l’inefficienza delle amministrazioni, in particolare di quella giudiziaria, sia anche il nostro ordinamento del lavoro disallineato rispetto allo standard delle legislazioni dei maggiori Paesi occidentali: e qui torna ancora in rilievo l’articolo 18, come elemento molto rilevante di disallineamento.
Vede continuità dalla legge Treu del 1997 alla legge Biagi del 2003 e al Jobs Act del 2015?
Sì: sono state tre tappe importanti in direzione dell’allineamento del nostro ordinamento del lavoro ai migliori standard dei Paesi del centro e nord-Europa. Quest’ultima, però, mi sembra la più importante. Non solo per l’ampiezza della gamma delle materie su cui la riforma interviene, ma soprattutto perché, mentre le prime due leggi hanno operato soltanto sui rapporti di lavoro marginali, quest’ultimo intervento ristruttura la parte centrale del nostro diritto del lavoro, cioè quella relativa al rapporto di lavoro ordinario a tempo indeterminato.
Quali corrispondenze e quali mancanze vede tra libro Bianco di Marco Biagi e la legge che porta il suo nome?
A dire il vero mi sembra che tra i due testi ci sia una corrispondenza piena. Del resto, è noto che la legge, pur varata dopo la sua morte, è stata scritta da lui per nove decimi.
Jobs Act: quali i passi in avanti più importanti?
Il più importante è costituito dal passaggio molto netto da un regime incentrato sul principio della job property a un regime incentrato su di una liability rule, cioè sull’indennizzo del lavoratore che perde il posto, e sulla protezione della sicurezza della persona nel mercato del lavoro, con un trattamento di disoccupazione veramente universale e finalmente di livello europeo, sia per l’entità che per la durata. Ma è importante anche l’aggiornamento delle norme sul part-time, con la legittimazione delle cosiddette clausole elastiche; e la riscrittura di due norme-chiave dello Statuto dei lavoratori del 1970: quella sul mutamento di mansioni e quella sulle apparecchiature di controllo a distanza. Occorre infine menzionare, per la sua importanza sul piano tecnico, la nuova disciplina delle collaborazioni autonome continuative; ma questa credo che produrrà effetti pratici limitati.
Perché limitati?
D’ora in poi sarà impossibile vedere assurdità come il magazziniere a partita Iva, o la segretaria d’ufficio autonoma, alla quale viene rinnovato di anno in anno il “progetto” per simulare il rispetto della legge. Questo, indubbiamente, sarà un risultato notevole. Però la norma prevede numerose possibilità di deroga. Sta di fatto, comunque, che dalla legge Biagi in poi le collaborazioni autonome continuative sono andate riducendosi notevolmente. Ora la vera partita si gioca fra contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e a termine.
L’Agenzia nazionale del lavoro non rischia di fermare esperienze regionali virtuose?
C’è questo rischio e dobbiamo assolutamente evitarlo. All’Anpal devono essere assegnati compiti di fissazione di standard di efficacia dei servizi regionali, controllo del rispetto di questi standard e surrogazione alle Regioni che non riescono a rispettarli. Ma occorre anche chiedersi che senso abbia istituire oggi un ente pubblico, definendone minuziosamente l’organigramma, mentre è in corso l’iter parlamentare di una riforma con la quale si intende modificare profondamente la ripartizione costituzionale delle competenze su questa materia tra Stato e Regioni.
Nel primo capitolo del suo libro lei indica e commenta la tendenza di alcuni giudici del lavoro a porsi in contrasto con la volontà del legislatore. Ci dice qui in sintesi a che cosa si riferisce?
Non mi riferisco solo ai giudici del lavoro. Mentre era ancora in corso in Parlamento l’iter della seconda legge Fornero, quella dedicata al mercato del lavoro, nella primavera del 2012 si tenne un congresso dell’Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale nel quale le due relazioni introduttive e la maggior parte degli interventi erano dedicati a elaborare gli schemi di ragionamento idonei al fine di disapplicare le nuove norme in materia di licenziamenti e continuare ad applicare l’articolo 18 sostanzialmente come si era fatto fino a quel momento. Questo atteggiamento si ritrova, effettivamente, in diverse sentenze di questi ultimi tre anni, delle quali nel libro indico le più significative, mostrando come raggiungano l’effetto di una sostanziale disapplicazione della nuova norma. È anche per questo che si è reso necessario tornare su questa materia, con una norma che lasci lo spazio minore possibile alla discrezionalità del giudice: perché molti magistrati sono convinti, contro l’opinione già espressa in modo chiarissimo dalla Corte costituzionale, che non ci possa essere un ordinamento del lavoro degno di questo nome al di fuori del regime di job property.
Cosa resta da fare per completare il percorso di riforma del lavoro in Italia?
I due capitoli sui quali occorre ancora lavorare molto sono, innanzitutto, quello dei servizi per l’impiego, dove il problema non è tanto di nuove norme quanto di implementazione, di acquisizione del necessario know-howoperativo; e qui siamo davvero ancora molto molto indietro, anche se la legge-delega compie su questo terreno due scelte di grande importanza: la cooperazione tra servizio pubblico e imprese specializzate in questi servizi, e il contratto di ricollocazione. Inoltre il Codice semplificato del lavoro: il decreto sul cosiddetto “riordino contrattuale” costituisce un primo passo utile nella direzione indicata dalla legge-delega, ma non certo una attuazione compiuta della delega stessa, per questo aspetto. Ci sono ancora molte resistenze, e molto forti, contro la prospettiva delCodice semplificato. Ma ci arriveremo, perché è uno strumento importantissimo per il rilancio dell’economia del Paese e per una sua maggiore attrattività nei confronti degli operatori stranieri.
Cos’altro realisticamente può essere fatto per incentivare la crescita?
Dicevamo ora della necessità di una maggiore attrattività del Paese per gli investitori esteri: questa è la leva più importante sulla quale oggi possiamo agire per aumentare la domanda di lavoro e rafforzare la crescita. Se solo riuscissimo ad allinearci alla media dei Paesi Ue, per questo aspetto, cioè ad avere un flusso in entrata pari al 4,5% del Pil, ciò porterebbe un maggior flusso di investimenti in entrata pari a più di 50 miliardi ogni anno. Per questo occorre, certo, ridurre la pressione fiscale sulle imprese, migliorare l’efficienza delle amministrazioni incominciando da quella della Giustizia, ridurre la differenza di prezzo dell’energia rispetto a quello che si paga a nord delle Alpi; stiamo operando in ciascuna di queste direzioni. Ma occorre anche allineare il nostro ordinamento del lavoro ai migliori standard internazionali; e anche questo è uno degli obiettivi prioritari della riforma che sta muovendo i primi passi.
In collaborazione con www.think-in.it