Riforma delle pensioni, versione 2015. Nel profluvio di riforme vere, approvate, annunciate, discusse, discutibili, e via elencando, che sta caratterizzando la vita del Governo Renzi, infatti, sembra essere scoccata l’ora delle “decisioni irrevocabili” sulle… pensioni. Intendiamoci: non è una novità, ogni governo che si rispetti, ogni governo che voglia essere considerato davvero “italiano” deve intervenire su un paio di temi. Uno è la scuola, ed è appena stato fatto. Un altro sono le pensioni.



Materia decisamente complessa, che tocca un po’ tutti: in chiave presente, passata o futura, ma è un classico tema trasversale. D’altra parte è dalla legge Fornero, del 2012, cioè da quasi tre anni, che nulla si fa, che niente cambia. E volete che Renzi non si faccia prendere da una forma compulsiva di “ansia da trasformazione” di fronte a una norma che risale a 36 mesi fa circa? Ma scherziamo?



Questa volta però sembrerebbe, il condizionale è d’obbligo, che si vogliano allargare le maglie della Fornero, consentendo agli italiani di andare in pensione prima dei 67 anni di età. Se così fosse la domanda più banale, la prima tra tutte, è quella di chi pagherebbe il conto della novità. Ma la seconda, altrettanto importante, riguarderebbe il perché, cioè perché si dovrebbe fare ciò, qual è lo scopo?

Facile: per consentire alla gente di ritirarsi dal lavoro quando ancora non è esausta, quando non è ancora del tutto “spompata”. In fondo, classico esempio, come immaginarsi delle maestre d’asilo di 67 anni di età alle prese con bambini di tre o quattro anni? O come affrontare la catena di montaggio mentre si combatte con artriti e sciatiche?



Alcuni politici, però, forse per non rischiare però di essere mal intesi, o peggio per non passare per essere delle “anime pietose” (pare che oggi tra di loro vada di moda solo l’uomo duro, quello che gode a veder soffrire gli altri!), si sono inventati una risposta che rischia di essere non solo falsa, ma di ingenerare dubbi sulla bontà stessa della proposta e sulla capacità dei proponenti di guardare alla realtà con occhio scevro da ideologismi.

Prendiamo ad esempio Cesare Damiano, persona seria, corretta, anche competente. Già sindacalista, già ministro, oggi è a capo della Commissione parlamentare che si occupa di Lavoro. Ebbene, da piemontese pragmatico qual è, egli ha chiesto che la riforma vada in direzione di maggiore flessibilità perché, ipse dixit, è “una manovra di politica economica occupazionale. Con la flessibilità aiutiamo qualche figlio e nipote a entrare nel mondo del lavoro facilitando il turn over”. Cioè, par di capire, mandiamo in pensione prima la gente per far posto ai giovani.

Una bella frase, che nei talk show farebbe la sua figura, ma che nella realtà quotidiana del Paese rischia di essere controproducente. Anzitutto però una considerazione: come la mettiamo con le affermazioni, diffuse anche nei dintorni di Damiano, per cui i posti di lavoro creati dal Jobs Act non sarebbero posti veri perché si tratterebbe di sostituzione di contratti e non di creazione di lavoro ex novo? Allora quelli creati con i pensionamenti che sarebbero? Ma al di là di tutto c’è un problema generale.

I pensionamenti non hanno mai creato posti di lavoro, non hanno mai, sui macronumeri, aiutato il rilancio occupazionale. Al limite sono serviti a tagliare i costi delle aziende, hanno permesso ricambi marginali legati soprattutto a nuove mansioni, alla rifocalizzazione del capitale umano a disposizione delle imprese. Un giovane non sostituisce mai, di norma, un pensionato, ma viene assunto per fare spesso altro da quello della persona che va in pensione. Il problema quindi non è il cambio alla pari tra pensionandi e giovani, ma convincere le aziende a riformarsi, e a farlo in fretta.

La controprova? In Lombardia sono stati firmati da Confindustria e Regione delle intese chiamate “patti generazionali”: un lavoratore anziano sarebbe andato in part-time nell’ultima parte della sua vita lavorativa, un giovane sarebbe stato assunto, e la Regione avrebbe coperto con un contributo le differenze pensionistiche, evitando che ci fossero perdite economiche per chi aderiva a tale accordo. I risultati sono stati, fin qui, miserrimi. Pochissime persone hanno aderito, pochissime aziende si sono fatte avanti. Eppure i fondi a sostegno non sono mai mancati.

Perché allora tale flop? Perché il problema non è la sostituzione di un giovane con un anziano, ma lo sono la qualità del pensiero del singolo lavoratore, i suoi desideri, la forza con cui egli si aggrappa, sovente, al suo posto, sentito assai più come un bene individuale, un punto decisivo per la propria vita, che non come un peso. Certo, si afferma di voler andar via, di voler lasciare l’ufficio, la fabbrica, il magazzino, l’aula o il reparto ospedaliero. Ma sovente si tratta di un desiderio di fuga dalla fatica immediata più che di un fatto reale. Non sempre, certo, non sempre: ma è bene non confondere le affermazioni general generiche con le posizioni umane dei singoli.

Ed è da queste che, infatti, bisogna partire. Dal desiderio della singola persona e dal rapporto che essa, ed essa sola, ha, sente di avere, con il proprio lavoro. Il nodo del problema si nasconde in questo nesso così intimo, personale, un filo sottile ma resistentissimo, tanto lontano e distante dalle chiacchiere da bar, dalle affermazioni che si devono fare davanti al mondo, pena correre il rischio di passare per aziendalisti, o, peggio, per crumiri assatanati di lavoro.

La flessibilità in uscita riguarda, ripetiamo, il desiderio del singolo, lo sguardo con cui egli sta davanti al proprio lavoro e alla propria vita, la coscienza che lo guida quotidianamente quando si trova in azienda o in ufficio. Per questo bisogna lasciargli la flessibilità di uscire o di stare ancora in produzione. Perché è un fatto di libertà e non un fatto economico. 

Una tale scelta nasce però, anzitutto, da una visione della persona che ne fa non un homo oeconomicus, bensì un essere autonomo, libero e responsabile. Questo a nostro avviso non ha capito Damiano, mentre chi ha dimostrato di averlo ben chiaro è stata Anna Maria Furlan, la quale ha detto di sì alla proposta, ponendosi peraltro nella linea del suo sindacato che ha sempre giustificato questa proposta a partire dal bisogno di lasciare ognuno libero di decidere del proprio destino. Ma lei, non a caso, di mestiere fa il segretario nazionale della Cisl, associazione che ha ben chiari, e cari, i concetti di persona e di libertà.