Con l’approvazione in prima lettura degli ultimi quattro decreti attuativi del Jobs Act il Governo ha esercitato entro i sei mesi previsti la delega conferitagli dal Parlamento lo scorso nel dicembre scorso. Tra gli ultimi provvedimenti c’è lo schema di decreto per il riordino delle norme sui servizi al lavoro e le politiche attive, che ha lo scopo di finalizzata ad attuare la nuova tutela dei lavoratori nel mercato del lavoro. Ora A partire da questo momento le Camere hanno un mese di tempo per esprimersi, dopodiché i decreti potranno essere emanati dal governo in seconda lettura e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.



Per dare un giudizio è importante capirne l’obiettivo finale, ripartendo dalla contenuto nella famosa lettera, firmata da Trichet e Draghi, che la Bce inviò all’Italia il 5 agosto 2011, in piena crisi finanziaria. Per «aumentare il potenziale di crescita», i banchieri centrali europei suggerivano «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti», con un «sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il lavoro in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi». La revisione delle norme che regolano assunzione e licenziamento è stata fatta. Assieme al sistema universale di assicurazione per i disoccupati. E i primi risultati si vedono: i nuovi assunti a tempo indeterminato dei primi 5 mesi del 2015 sono quasi raddoppiati rispetto all’anno scorso. Ma questa partita era relativamente facile: superato lo scoglio ideologico dell’articolo 18, con gli annessi robusti incentivi economici, le nuove regole hanno prodotto effetti immediati.



Ben più complessa si presenta invece la partita sui servizi al lavoro e le politiche attive. Con uno degli ultimi decreti approvati in prima lettura, il Governo punta a riprendersi il controllo sulle politiche del lavoro. Ciò avviene, però, in un momento in cui il percorso di revisione costituzionale dei poteri in tal senso non si è ancora compiuto (ci vorrà ancora almeno un anno, se i lavori parlamentari procederanno senza intoppi). Varrebbe allora la pena, in questa fase, che il Governo, invece di voler dare una risposta universale alla disoccupazione, senza gli adeguati poteri e le relative risorse finanziarie, si concentrasse esclusivamente sulla platea dei lavoratori licenziati. In tal modo potrebbe realizzare servizi più efficaci, senza, tra l’altro, dover reperire risorse in modo isterico per sostenere le proprie politiche. Riconsiderando, inoltre, la strada del contratto di ricollocazione, che adesso invece verrebbe abbandonata, a distanza di soli tre mesi, (financo nel lessico!), con l’istituendo “assegno” di ricollocazione, senza averla neanche sperimentata per un giorno!



Nella parte riguardante l’organizzazione dei servizi al lavoro si verifica poi uno strano paradosso: in Italia è stato sperimentato su larga scala e per otto anni, con eccellenti risultati sia in termini di efficacia che di efficienza, un solo modello: quello «competitivo»,. Tale modello ha fatto sì che in cui i Centri Pubblici per l’Impiego (CPI) sono stati fossero equiparati messi sullo stesso piano dealle agenzie per il lavoro (APL) private. Secondo questo modello si assegna al disoccupato un voucher, tramite sistema informativo della Regione, di importo crescente in funzione adella difficoltà di collocazione, spendibile a propria scelta presso un CPI o un operatore privato accreditato. A sua volta l’operatore, pubblico o privato che sia, incassa la parte prevalente del voucher solo al momento del collocamento del disoccupato.

Ciononostante, lo schema di decreto sembra optare invece per un sistema in cui, almeno in prima approssimazione, si assegna, la competenza sui servizi per il lavoro esclusivamente ai CPI. Il coinvolgimento delle agenzie per lavoro private e la relativa competizione con essi scatterebbe soltanto dopo sei mesi di disoccupazione, rendendo praticamente inefficace un il possibile contributo da parte dei soggetti privatidi questi ultimi. A nostro avviso, per far funzionare davvero la ricollocazione bisogna puntare decisamente sul modello competitivo:, l’unico davvero in grado di portare adare risultati concreti, come ha dimostrato di recente anche il progetto “Garanzia Giovani”. Il passaggio è stretto e difficile,: ma occorre mettere le migliori basi perché la riforma dei servizi per il lavoro e delle politiche attive abbia successo.