Alla vigilia dell’ultima settimana di scuola per molti studenti italiani, mi ritorna in mente la notizia della discussione, sviluppatasi in terra inglese, sui benefici o meno di stimolare i giovani ad affacciarsi, ancora adolescenti, al mondo del lavoro. Anche perché proprio pochi giorni fa Jovanotti ha riacceso la polemica, in terra italiana, cominciata dopo la battuta del ministro Poletti sulle troppe vacanze dei ragazzi, mentre, era il suo appello, sarebbe bene che impegnassero parte di queste vacanze con dei lavoretti.



In Inghilterra la polemica è esplosa per la consuetudine (Saturday Job) di impegnare i fine settimana per raggranellare un po’ di sterline per le spese personali. La domanda che ha scatenato la discussione è se i danni, provenienti dall’uso smodato di quelle sterline da parte degli adolescenti, non siano superiori ai benefici. Ricordo che nel mondo anglosassone, diversamente dal contesto italiano, i ragazzi sono da sempre abituati a intervallare la scuola con momenti di lavoro, con un’alternanza distribuita lungo tutto l’anno scolastico, non solo nei periodi di pausa didattica, cioè di vacanza.



Nel frattempo, sono comparse, sempre in terra inglese, anche delle ricerche sociali, le quali hanno messo in evidenza come questi continui impegni nel mondo del lavoro alla fine finiscano per compromettere il Gcse, cioè l’esame delle superiori, rilasciato dai 14 ai 16 anni. Il The Guardian, infine, ha reso pubblica un’altra ricerca, nella quale emergerebbe come la disponibilità di sterline spinga gli stessi ragazzi a eccedere nell’alcol e a fare uso di droga.

Queste ricerche, secondo alcune voci intervenute nel dibattito, smentirebbero l’auspicio dell’ormai ex omologo del nostro ministro Poletti, Matthew Hancock, il quale aveva auspicato un maggiore impegno dei giovani nel lavoro e una maggiore disponibilità da parte degli imprenditori ad attivare forme di collaborazione. Hancock aveva motivato il suo auspicio sulla base dei dati ufficiali: dal 2000 a oggi si sono dimezzati (dal 30% al 15,5%) i giovani di 16-17 anni che sono stati coinvolti in queste forme contrattuali.



Diversa è la situazione italiana. Non solo perché, da noi, il sabato è un giorno di scuola. Ma soprattutto perché i nostri percorsi formativi sono pensati ancora lontani dal mondo del lavoro. E le vacanze, anzi, sarebbero uno dei tempi di maggiore stimolo e libertà per i nostri ragazzi, valori e attitudini essenziali per il loro futuro. Questo non toglie che moltissimi ragazzi e ragazze, durante le vacanze e nei fine settimana, autonomamente siano impegnati in lavoretti. Per dare una mano alle difficoltà familiari, o, più semplicemente, per qualche soldino in proprio.

Ma le polemiche esplose da noi, dopo la battuta di Poletti, non sempre hanno colto, a mio avviso, il problema di fondo di una delle criticità del contesto italiano. Parlo del valore orientante del mondo del lavoro rispetto alle scelte dei nostri giovani, quando si trovano, verso i 18 anni, di fronte alle domande-chiave che segneranno la loro vita. La reazione stizzita, pertanto, anche di molti operatori della scuola alla battuta del ministro Poletti sulle troppe vacanze dei nostri studenti credo meriti un commento.

Anzitutto perché dimostra, ancora una volta, che pochi conoscono la realtà. Giusto ricordare, ad esempio, che molte scuole da anni si sono attivate per organizzare stage estivi. Nella mia scuola, un liceo di oltre duemila studenti, sono anni che propongo agli studenti delle classi terze e quarte l’esperienza degli stage estivi. Su 800 studenti, lo scorso anno hanno aderito in 160, quest’anno le adesioni sono 255. Una bella percentuale. Renderlo obbligatorio a tutti? Non so se l’auspicio di Poletti fosse in questo senso, ma una riflessione meriterebbe di uno spazio di confronto aggiuntivo, che comprenda anche la rivisitazione del calendario scolastico, dei programmi e dei percorsi curricolari.

Ma c’è un dato che dovrebbe far riflettere. Tanto per capirci, non molti conoscono i dati Alma Laurea, con il 50% di laureati che ammette di avere sbagliato scelta delle scuole superiori e universitarie. Se poi diamo un’occhiata alle tante statistiche sulla disoccupazione giovanile, sul mancato raccordo tra formazione e lavoro, dovremmo guardare, invece, positivamente a tutte quelle opportunità che possono aiutare e orientare, nel concreto, le scelte dei nostri ragazzi e delle loro famiglie. Vista la gravità della situazione, un bagno di realtà non credo perciò faccia male a nessuno.

La battuta di Poletti, in sintesi, non può andar bruciata, come notizia tra le tante, nella comune indifferenza. Perché porta e impone una particolare attenzione al tema dei temi della vita di oggi, il lavoro. Le leggi, cioè, possono servire, ma, alla fine, lo sappiamo: il lavoro non si crea per decreto, nemmeno con manifestazioni piene di slogan (“diritti, diritti”). 

Il lavoro si crea se tutte queste cose (norme e formazione, anzitutto) trovano corrispondenza con le reali esigenze della vita di oggi. Per orientare attitudini e competenze dei nostri giovani, come delle stesse strutture (la scuola e l’università, anzitutto) che le dovrebbero accompagnare. Dedicare parte del tempo estivo, quindi, ma anche dell’anno scolastico, a momenti di impegno in questo o quel settore, non può che far bene. Oltre quell’alternanza scuola-lavoro che, nella Buona Scuola, dovrebbe diventare parte integrante della vita scolastica del triennio delle superiori (400 ore per i Tecnici e 200 per i Licei). Esperienze motivanti e orientanti, dunque.

Oggi un’azienda e uno studio professionale non sono più alla ricerca di un giovane da tenere con sé per tutta la vita, con un contratto a tempo indeterminato. Sono alla ricerca di quelle competenze che servono per portare avanti i propri progetti.

Resta la domanda essenziale, che nemmeno la Buona Scuola affronta: quali competenze possono garantire ai nostri giovani reali opportunità di lavoro, cioè di vita? Sapendo, comunque, che le competenze si acquisiscono soprattutto facendo, lavorando, impattandosi con la realtà concreta e non restando sempre sui banchi di scuola davanti ai libri. Ma in Italia, lo sappiamo, facciamo ancora fatica a pensare che si possa imparare anche lavorando, che la formazione della persona avviene sul luogo di lavoro tanto quanto a scuola.

Chiaro qui il richiamo all’apprendistato, che in altre nazioni europee (per esempio, in Inghilterra) sta aiutando a diminuire la disoccupazione giovanile. Mentre in Italia è ancora poco utilizzato. Non solo la scuola, però, anche tutto il mondo del lavoro deve fare un salto di qualità. Le imprese devono capire che spesso le competenze che richiedono possono essere acquisite solo sul luogo di lavoro, e che per questo anche loro si devono assumere il compito di formare un giovane appena assunto. Le scuole, dal canto loro, devono cercare di lasciare più spazio alla dimensione pratica, laboratoriale, favorendo l’alternanza scuola-lavoro, anche nella forma dell’apprendistato di primo livello, per cercare di diminuire il più possibile lo scarto che c’è tra lavoro e istruzione, i quali sembrano ancora oggi due momenti di vita troppo lontani tra di loro.

Ha ragione Chiara Saraceno, nel suo recente libro, a ripetere “Il lavoro non basta”, ma da noi è già molto che i nostri ragazzi mettano testa e cuore dentro realtà che sono ancora oggi viste come lontane, astratte, di là da venire. Che facciano esperienza, e facciano tesoro da queste (e altre) esperienze.