Tito Boeri ha presentato la relazione annuale Inps, insieme alle sue proposte per ridisegnare il sistema pensionistico. Il Presidente dell’Inps non ha risparmiato critiche (spiegando che vogliono riesumare i meccanismi propri delle pensioni di anzianità) ai ddl di riforma delle pensioni in discussione in Parlamento. Il principale è quello che porta la firma di Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro. Il ddl prevede che si possa andare in pensione anticipatamente a 62 anni, con l’8% di penalizzazione per chi ha 35 anni di contributi e nessuna penalizzazione per chi ne ha 41. Ne abbiamo parlato con Luigino Bruni, professore di Economia politica all’Università Lumsa di Roma.



Che cosa ne pensa del ddl Damiano sulla flessibilità?

Qualsiasi proposta che riduca il numero di anni lavorativi per me va sempre accolta con entusiasmo. Una democrazia dovrebbe dare a ogni persona la possibilità di decidere quando andare in pensione, facendo un compromesso tra gli anni di lavoro ridotti e l’assegno percepito in futuro. Se un operaio a 60 anni si è stancato di andare in fabbrica, è single, non ha figli, può rinunciare a un po’ di reddito, e magari ha degli hobby e passioni che gli occupano molto tempo, è giusto che possa scegliere di andare in pensione.



Lei come formulerebbe una nuova riforma delle pensioni?

Dobbiamo andare verso una generale riduzione dell’età in cui si va in pensione, in quanto il lavoro va in buona parte ridistribuito. Non ha senso tenere fuori dal mercato così tanti giovani, e avere anziani che lavorano stanchi e demotivati fino a 68 anni. Per motivi di bilancio in tutto l’Occidente stiamo aumentando gli anni lavorativi perché non siamo capaci di sostenere il rapporto pensione/lavoro. Non può essere però un vincolo di bilancio a determinare un’intera civiltà.

Riducendo gli anni lavorativi non rischiamo di creare dei dissesti di bilancio come in Grecia?



Il problema della Grecia, e un tempo anche dell’Italia, è che fino a poco tempo fa si andava in pensione a 45 anni e si percepiva per tutta la vita la stessa pensione di chi ci andava a 70 anni. L’operazione che va compiuta è un’altra. Se si vuole andare in pensione a 60 anni è giusto poterlo fare, ma allora si riceverà il 20% in meno di stipendio.

Insomma va raggiunto un compromesso?

Esattamente, perché la gente deve poter spalmare il suo reddito sull’intero arco vitale, ma nello stesso tempo non è giusto che il governo decida per tutti a quanti anni possono andare in pensione. Se un cittadino percepisce altre entrate, o magari spende poco ed è stanco di lavorare, deve poter andare in pensione, anche se con una diminuzione considerevole del suo reddito.

Secondo quali criteri?

Una persona deve poter fare un calcolo costi/benefici e godere di una maggiore flessibilità. Liberi professionisti, consulenti e imprenditori hanno la libertà di andare in pensione se e quando vogliono, mentre la stragrande maggioranza dei lavoratori dipende da norme pubbliche che condizionano pesantemente scelte individuali.

 

Quali altre soluzioni andrebbero adottate?

Andrebbe sicuramente incentivato il part time degli over 55. Ci sono tanti lavori che possono essere ridistribuiti, come quelli nel settore pubblico e nelle grandi imprese. Bisogna fare un grande piano nazionale ed europeo, anziché il Jobs Act che funziona molto poco per assumere e molto bene per licenziare.

 

(Pietro Vernizzi)