Se il problema è riaprire il processo di unità sindacale, allora ha ragione Landini a dire, forse con troppo disprezzo, che è roba da anni ’70. Il processo di unità avviato in quegli anni veniva visto come coronamento di una fase di forte crescita del ruolo dei sindacati e dopo un periodo di lotte contrattuali che avevano visto riprendere il ruolo di tutte le componenti operaie nelle fabbriche. Erano due processi paralleli che ponevano oggettivamente un tema nuovo ai tre principali sindacati che si riferivano alle tre principali correnti ideali e politiche del ‘900.



Le lotte di fabbrica avevano fatto emergere l’esigenza di nuove rappresentanze. Il sistema gerarchico del lavoro industriale degli anni ’60 era stato messo in crisi e la rappresentanza sindacale, attraverso i consigli dei delegati, si poneva come reale contraltare alla struttura organizzativa precedente dei soli delegati di componente. Emergeva una nuova capacità di contrattazione, e non solo di contrapposizione. Anzi, è dove non si riesce a individuare un punto contrattuale chiaro ma prevalgono spinte estremistiche che il processo si chiude alla fine degli anni ’70 con la sconfitta sindacale alla Fiat. 



In parallelo si estende la presenza sindacale anche nei settori non industriali. Dalla Pubblica amministrazione al commercio e nel nascente terziario dei servizi si aprono nuove ed estese rappresentanze. Il ruolo del sindacato diventa centrale anche fuori dai luoghi di lavoro. Quello che diventerà un modello concertativo a livello nazionale inizia con una spinta realmente innovativa di un ruolo sindacale di contrattazione sui temi dei servizi per il territorio. Casa, nidi, trasporti, salute sono temi forti e affrontati in un confronto nuovo che vede i sindacati porsi come interlocutori con le amministrazioni territoriali, fino ai grandi tavoli di confronto nazionali con il governo.



Anche in questo nuovo ruolo si presentano due opzioni fra posizioni puramente rivendicative, quasi di invasione del campo politico, e posizioni di capacità contrattuale con proposte innovative. È il caso di alcuni contratti territoriali, come nel milanese, che potremo oggi dire anticipatori di progetti di responsabilità sociale. È degli anni ’70 un accordo che porta una quota degli aumenti salariali a un fondo destinato (garante il sindaco della città) a finanziare la realizzazione di servizi per l’infanzia e la famiglia. È in questo quadro che è di oggettivo superamento delle divisioni ideologiche che stavano alla base della divisione sindacale che la proposta di riunificazione prese il via. 

Oggi la situazione appare completamente diversa. Non si affacciano alla ribalta nuovi soggetti che mettono in discussione con crescita di capacità contrattuale la fase precedente. Si pongono nuovi problemi di capacità contrattuale decentrata. Si riaprono temi di servizi per i lavoratori. La rappresentanza di quasi il 50% dei lavoratori impiegati del settore privato in imprese di piccole dimensioni non riesce a darsi strutture certe e permanenti. Il contratto nazionale per troppi settori è più una gabbia di limiti che non una opportunità per contrattazioni decentrate. Il sistema concertativo è diventato come una ritualità senza contenuti e per i portatori di innovazione è addirittura un freno conservatore. Non ultima vale l’osservazione che nei sindacati prevale la rappresentanza di pensionati e di apparati elefantiaci che hanno interessi contrapposti a quelli delle nuove generazioni.

In questo quadro più che di processo di riunificazione avrebbe senso porsi l’obiettivo del sindacato unico. Non appaia come un fuga in avanti. Non può nascere dal nulla o dalla testa di Giove. Ma è un processo già riconoscibile nella realtà che i sindacati potranno seguire o cercare di frenare con il rischio di rimanerne travolti. Le tracce sono da cercare laddove i processi contrattuali hanno prodotto, anche in questi anni di crisi, nuove piattaforme e accordi avanzati. Primo e più eclatante esempio è stato di nuovo in Fiat. Accordo per produttività e salvaguardia dell’occupazione con rottura dello schema del contratto nazionale. Voto operaio che approva ed esclude dalle rappresentanze aziendali la Fiom che rifiuta il contratto.

Dietro a questa esperienza vi sono centinaia di casi di contratti (in quasi tutti i casi senza rottura di una componente) che hanno replicato piattaforme attente a produttività e lavoro. In qualche caso con particolare attenzione ad assunzioni giovanili e percorsi formativi. Sempre con voto libero di tutti gli interessati e conseguente rappresentanza. In questi casi conta chi è capace di rappresentare e dare vita a piattaforme reali di confronto. 

Anche sui servizi e il territorio, rompendo con la concertazione, si è tornati a trattare. I soggetti hanno però sempre assunto responsabilità dirette. Non grandi cortei e nessun contratto, ma proposte e capacità di creare nuovi servi con assunzione di responsabilità nella governance attuativa. È una realtà ormai più diffusa di quanto venga registrato e che porta a individuare in un sindacato che si ponga regole uniche cui attenersi quello che sfocerà in una nuova rappresentanza. 

Riunificare le burocrazie sindacali non ha futuro, dare le basi per far emergere un nuovo sindacato che riunifichi chi ha sviluppato rappresentanze reali è possibile. Questo processo, pur con le dovute differenze, riguarda certo tutte le rappresentanze economiche, e il processo, anche se lentamente, è avviato. Tocca ai nuovi dirigenti la volontà operativa di chi si propone di esserne guida e non solo rincorrere una realtà che si è messa in moto. 

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