La notizia arriva dalla Cisl nazionale ed è stata pubblicata l’altro giorno su Il Corriere della Sera da Dario Di Vico: in questo momento di crisi economica il numero dei Contratti nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni imprenditoriali è esploso fino a toccare quota 707. Ed è difficile pensare che questo boom sia legato a un’espansione dell’economia, a una crescita delle imprese e a un loro mutamento strutturale così profondo da giustificare la nascita di tanti nuovi contratti: dai 398 pre-crisi fino, appunto, ai 707 attuali. Certo, qualcuno, magari proprio la Cisl che ha la contrattazione nel suo DNA, potrebbe pure essere contento. Ma questo sentimento tende a scomparire in fretta quando si pensa che molti di questi accordi sono “finti”: cioè ricalcano pedissequamente quelli firmati da Cgil Cisl e Uil, oppure coprono settori marginali del sistema economico italiano. Dietro questa realtà ci solo le minuscole (ma non gratuite) esigenze di tante sigle sindacali minime, microscopiche o almeno minori le quali, una volta conclusi gli accordi a opera delle associazioni dei lavoratori più rappresentative, si presentano ai datori di lavoro e da questi ottengono quanto desiderato.
Cui prodest tutto questo? E soprattutto, è possibile andar avanti così? Cui prodest è facilmente detto: il vantaggio è reciproco, delle suddette sigle sindacali minori e dei datori di lavoro. Le prime, infatti, si ritagliano, in questo modo, un po’, come dire, “da remore”, qualche diritto in termini di permessi, distacchi, presenza ai tavoli della contrattazione, visibilità sulla stampa. I secondi invece ne traggono diversi vantaggi, a cominciare dal fatto che quando questo fenomeno è esploso, si pensava potesse mettere in difficoltà Cgil Cisl e Uil, relegarle ai bordi del sistema, togliere loro credibilità e forza. Un obiettivo mancato, evidentemente. Ma oltre ciò, ci sono alcuni ulteriori elementi da tener presente – ulteriori diciamo rispetto ai vantaggi reciproci di chi firma accordi-fotocopia e di chi tenta forzature in tema di rapporti sindacali.
Sempre più evidentemente, infatti, stiamo andando verso una società nella quale alla varietà delle situazioni di lavoro corrisponde una varietà di posizioni contrattuali e quindi una sempre più evidente diversità di trattamenti economici, di tutele e riconoscimenti. C’è una fetta di mondo del lavoro nella quale il sindacato fatica a entrare con accordi che valgano davvero erga omnes. In altri termini, i grandi contratti nazionali coprono sempre meno persone e aziende, risultano sempre più inadeguati rispetto all’intero panorama del mondo del lavoro nazionale. Troppi settori, anche non marginali, sfuggono loro, troppi lavoratori si stanno orientando verso contrattazioni di nicchia quando non individuali. In troppe aziende i massimalismi e le rigidità della contrattazione, o di una certa contrattazione, sono una (buona) ragione per fuggire da quel che si considera come dannoso o insufficiente per sé o per la propria azienda.
Si sta cioè prospettando per l’Italia dei contratti e dei sindacati un futuro assai più simile al modello statunitense che non a quello tedesco? Forse è ancora presto per dirlo, ma alcuni elementi spingono a pensare che la strada che abbiamo imboccato vada in questa direzione. Ma quale la risposta possibile? E il modello Usa è davvero un brutto modello? Siamo pronti per una simile conversione, che risulterebbe tanto improvvisa quanto violenta?
Sono domande che meriterebbero una riflessione, per ora poco più che accademica, anche se, come abbiamo visto, la realtà sta mutando, e pure in fretta. A oggi, comunque, è evidente che nessuna delle grandi centrali sindacali si sta attrezzando su questo versante. Anche la Cisl, la più flessibile, quella che ha fatto della contrattazione la sua bandiera, non sembra aver per ora metabolizzato il complesso dei mutamenti in atto. La risposta che arriva dal sindacato di via Po, infatti, è quella della tradizionale spinta verso la contrattazione decentrata, una contrattazione cioè che copra come un grande ombrello l’insieme delle persone e delle aziende garantendo a tutti alcune tutele minime e generali, e che lasci il resto alla contrattazione locale, nelle singole imprese o sui territori. Ma questa risposta, per quanto innovativa e moderna, sembra anch’essa un passo indietro rispetto alla realtà.
Certo, le fughe nel passato non servono a nessuno, come a nessuno sarebbe utile davvero il ritorno ai contratti omnicomprensivi o ancor meno il ricorso alla contrattazione per legge. Piuttosto bisognerà cominciare a riflettere su un altro strumento, quello della certificazione dei contratti, del quale poco si è parlato in occasione della approvazione del recente Job Act, ma che, se ben usato e ben ponderato, in un giusto mix con una forte spinta verso la contrattazione decentrata, e con la riduzione a pochi articoli e tutele fondamentali dei contratti nazionali, potrebbe coprire più e meglio le esigenze di imprese e lavoratori, e ciò assicurando maggiore flessibilità, ma senza scivolare verso mercati del lavoro “chinese style”.
In ogni caso il panorama che abbiamo davanti è quello di aziende e gruppi e aziende che lentamente, ma sempre più decisamente, stanno andando verso la contrattazione di nicchia, di lavoratori che, oggi anche nelle fasce medie e medio-basse, stanno negoziando per sé: una polverizzazione che richiede una riflessione non banale e non ideologica, ma soprattutto non troppo lenta.