Considero l’On. Cesare Damiano un Politico che ha sempre dato ampia dimostrazione di conoscere i temi di cui tratta e di saper difendere con tanta eleganza e altrettanta fermezza le proprie tesi, preservando una coerenza di comportamento e un’onestà intellettuale, oggi inusuale. Apprezzo e stimo l’uomo dunque, ma, purtroppo, non ne condivido i propositi e le idee.



La premessa è quasi doverosa, nel momento in cui intendo esprimere alcune considerazioni sulla sua proposta normativa in tema di flessibilità pensionistica. La Proposta di Legge Camera/857, come enunciato nella relazione di accompagnamento, “si pone l’obiettivo di ripristinare certezza nella possibilità di età di pensionamento effettivo di milioni di lavoratrici e lavoratori, restituendo loro quella serenità perduta nel corso degli ultimi anni, caratterizzati da un completo stravolgimento del sistema previdenziale”; inoltre, “in un contesto di recessione così profondo e duraturo […] riteniamo necessario prevedere forme di flessibilità di pensionamento, le quali, attraverso un sistema di penalizzazione e premialità in tema di assegno pensionistico, consenta alle lavoratrici e ai lavoratori di poter decidere, all’interno di un range variabile tra i 62 e i 70 anni di età, il momento della cessazione dell’attività lavorativa“. Gli estensori ritengono che tale proposta “contribuirà ad agevolare anche un ricambio generazionale, che le recenti riforme pensionistiche hanno contribuito a disincentivare“.



Ricordo che il meccanismo proposto è quello di rendere possibile, raggiunti i 35 anni di contribuzione, la scelta di andare in pensione tra il 62° e il 70° anno di età. L’importo della stessa è quantificato applicando una penalizzazione del 2% annuo (calcolato sulla quota retributiva) per ogni anno di anticipo del pensionamento rispetto al 66° anno di età; tali penalizzazioni sono ridotte per ogni anno di contribuzione ulteriore rispetto al 35° e sino al 40°. Di converso, è prevista una premialità (anch’essa del 2% annuo) qualora la pensione sia posticipata rispetto all’età di 66 anni, sino al compimento del 70° anno. 



Il primo elemento rilevabile è dato dal fatto che il meccanismo di premialità/penalizzazione non è ancorato a rigidi schemi di valutazione attuariale, bensì, come da molti già evidenziato, se ne discosta notevolmente, determinando un costo aggiuntivo sul piano previdenziale.

So bene che la previdenza non è fatta solo da “numeri” ma anche da “persone” e posso comprendere l’intento politico di tale proposta, MA le “persone” non sono solo quelle che oggi vanno in pensione, bensì anche tutte quelle che aspirano ad andarci dignitosamente in un futuro – anche non prossimo – e che contribuiscono invece oggi sul piano previdenziale e sul piano fiscale alla copertura di un debito previdenziale.

Non possiamo infatti dimenticare che l’attuale e futuro equilibrio dell’Inps è condizionato fortemente da ingenti flussi di denaro drenati dalla fiscalità collettiva; ipotizzare di creare meccanismi di flessibilità “a debito”, ossia finanziati, ancora una volta, dalle generazioni in attività e da quelle a venire è anacronistico prima ancora che profondamente iniquo.

D’altronde, già oggi esiste un sistema di flessibilità (quale quello previsto per le donne con 57-58 anni di età e 35 di contribuzione) che prevede però un ricalcolo della pensione su base contributiva e, quindi, tendenzialmente neutra in termini di oneri previdenziali. Se, pertanto, vogliamo effettivamente favorire un sistema flessibile – che tende anche a responsabilizzare il lavoratore – teniamo bene a mente il necessario equilibrio tra spesa previdenziale e relativo finanziamento.

Un altro aspetto che lascia perplesso è che già dalle motivazioni della proposta di legge promana la non celata esigenza di utilizzare, in un contesto di recessione prolungata, il sistema di flessibilità in uscita quale ammortizzatore sociale. In altri termini, a fronte di una crisi economica di vasta portata si risponde attraverso un ampliamento surrettizio degli ammortizzatori sociali adottando politiche passive che si sostanziano in un aumento della spesa pubblica. Infatti, posto che “nessun pasto è gratis”, un aumento della spesa previdenziale, comporta, in una dimostrata incapacità di operare con politiche di spending review, un innalzamento della pressione fiscale.

Altrettanto poco convincente, ancorché seducente, la tesi che un aumento della flessibilità possa comportare un innalzamento dell’occupazione giovanile, disincentivata – secondo gli estensori della proposta – dagli ultimi interventi nel sistema pensionistico. Ora, premesso che non risultano elementi oggettivi su cui basare tale ultimo assunto (bensì è noto che i livelli di disoccupazione giovanile erano molto elevati già prima della riforma Fornero), è da sottolineare che questa visione del mercato occupazionale a “porte girevoli”- nel quale all’uscita del lavoratore anziano possa/debba corrispondere l’ingresso di un giovane – rappresenta una visione estremamente statica.

Le esigenze occupazionali delle aziende non sono dettate da mere motivazioni di ricambio quantitativo, bensì sono legate alla possibilità di ritrovare competenze specifiche (spesso ben diverse da quelle possedute da coloro che vanno in pensione) e dall’esistenza di un mercato di riferimento in crescita. In altri termini, vi è una necessità di garantire il mercato alle imprese e non di garantire un mercato del lavoro, se vogliamo veramente far crescere i livelli occupazionali, favorendo così la permanenza in attività dei giovani e degli anziani.

 

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