Diversi sono i dati che vengono comunicati in merito all’andamento del mercato del lavoro ed è sempre più complicato avere una visione di sintesi di quello che gli stessi ci dicono sulla situazione odierna e sulle prospettive future. Cercando una sintesi tra i dati di stock dei principali indicatori statistici e quelli delle dinamiche delle assunzioni, possiamo renderci maggiormente conto di cosa sta succedendo.
Il tasso di disoccupazione posiziona il nostro Paese su valori decisamente più elevati della media europea e soprattutto di paesi come la Germania e l’Inghilterra. Nel primo trimestre 2015 abbiamo raggiunto il valore del 12,4 % (sopra di noi solo la Grecia e la Spagna), mentre la media Ue-28 è pari al 9,7% (la Germania al 4,8% e l’Inghilterra al 5,5%). La situazione è ancor più critica se osserviamo lo stesso indicatore per la popolazione giovanile (15-24 anni) dove il tasso di disoccupazione è sopra il 41%. Questo indicatore (accompagnato dagli altri che non mostrano valori confortanti) evidenzia il livello di criticità in cui versa il nostro mercato del lavoro: durante questi anni di crisi sono cresciuti significativamente i disoccupati (a giugno 2015 sono oltre 3,2 milioni) e le persone che, sfiduciate, non cercano o hanno smesso di cercare opportunità lavorative.
Se questa è la fotografia dello stato attuale, cosa sta succedendo dal punto di vista delle dinamiche delle assunzioni? Come la riforma del Jobs Act sta intervenendo per rispondere a questa drammatica situazione? Quello che possiamo osservare, sotto un profilo quantitativo, sono i dati delle assunzioni, cessazioni e trasformazione dei rapporti di lavoro.
Nel primo semestre 2015 le assunzioni sono aumentate di poche unità (821 mila rispetto alle 805 mila del 2014), ma assistiamo a un aumento di utilizzo dei contratti a tempo indeterminato rispetto ai contratti temporanei. In particolare, la forbice tra contratti temporanei e contratti permanenti si è sostanzialmente riposizionata su valori pre-crisi (2008) dove mediamente il 35% delle assunzioni era effettuato con contratti a tempo indeterminato e il 65% con contratti temporanei. L’utilizzo del contratto indeterminato a tutele crescenti è ancor più significativo per i giovani, infatti sono oltre il 40% i contratti indeterminati rispetto a quelli temporanei effettuati nella fascia 18-29 anni di età.
Se da un lato la situazione è complessivamente molto grave, come gli indicatori statistici sopra esposti dimostrano, dall’altro le dinamiche in atto mostrano segnali positivi di cambiamento che indicano una direzione corretta di intervento delle politiche recentemente attuate in ordine al riordino del contratto a tempo indeterminato. Riuscirà questo cambiamento normativo a far progredire le dinamiche del mercato del lavoro aumentando l’occupazione? Quando finirà l’incentivo (durata di tre anni per i contratti attuati nel 2015), i contratti indeterminati avviati si interromperanno?
Queste sono alcune delle domande più frequenti e i più scettici e critici sostengono che l’azione legislativa non darà frutti positivi e che i lavoratori sono e si troveranno solo privati delle tutele di “garanzia del posto fisso” presenti nel vecchio contratto a tempo indeterminato. Ma è ormai evidente a tutti che il concetto di “posto fisso per la vita” non esiste più. Già prima della crisi i contratti a tempo indeterminato (nel mercato privato) mostravano durate imparagonabili a quelle a cui la situazione di qualche decennio fa ci aveva abituato. Tra il 2006 e il 2008, ad esempio, circa il 50% dei 2 milioni di contratti a tempo indeterminato avviati in Lombardia sono stati chiusi e la loro durata media è stata pari a circa 16 mesi: il ciclo di vita di tali rapporti di lavoro è passato dai 35 anni di una volta a circa 10 anni dei nostri giorni.
Questo e altri fattori di trasformazione del mercato del lavoro dicono che oggi l’esperienza del cambiamento nella vita lavorativa e professionale è parte integrante del percorso di ciascuno e lo sarà sempre più nel prossimo futuro. Di fronte a questa realtà, senza voler cadere nella banalizzazione, se anche i contratti indeterminati a tutele crescenti durassero solo i tre anni dell’incentivo (tenendo poi conto che stanno aumentando significativamente la loro quota percentuale sul totale dei contratti avviati) si otterrebbe un risultato notevole in termini di durata media dell’occupazione (si otterrebbe cioè maggior garanzia di lavoro).
La questione della garanzia è certamente un elemento centrale del lavoro, in quanto rappresenta un fattore di base per il bisogno di sicurezza della persona. Il problema in questo senso è però innanzitutto di concezione. Se superando l’idea di “lavoro come posto fisso” si accettasse quella di “lavoro come percorso”, si porrebbe sostanzialmente l’accento, sia per le persone che per le imprese, sull’importanza della professionalità, cioè del lavoro come mestiere. Si affermerebbe quindi che il fattore strategico per lo sviluppo (elemento essenziale per la creazione di opportunità lavorative) è il capitale umano.
La fonte principale per il vantaggio competitivo delle organizzazioni (imprese private e pubbliche, profit e non profit) è oggi, e sarà sempre di più, la creazione e la capacità di applicazione delle conoscenze nei processi economici, sintetizzabile nei termini di qualità e gestione del capitale umano. D’altra parte lo sviluppo del capitale umano diventa fattore strategico anche per i lavoratori che possono in tal modo incrementare la propria “appetibilità” nei confronti delle imprese, il proprio potere contrattuale sul mercato e la probabilità di trovare occasioni di lavoro, garantendosi così una maggiore stabilità occupazionale.
Riportare al centro del mercato del lavoro il capitale umano è certamente la sfida più grande per lo sviluppo e la crescita dell’occupazione. Questo fatto comporta, per chi ha responsabilità politica, di effettuare percorsi di riforme capaci di favorire lo sviluppo delle persone e per le persone stesse, di mettere in gioco continuamente la propria responsabilità e intrapresa.