È un agosto piuttosto caldo per il sindacato. Già i mesi di giugno e luglio avevano registrato temperature elevate, sospinte dalla pubblicazione degli ultimi schemi di decreto del Jobs Act (i peggiori, tra l’altro), ancora una volta costruiti senza interfacciarsi con la rappresentanza dei lavoratori; dall’annuncio della volontà del Governo di legiferare su rappresentanza e sciopero; dal mancato accordo sul progetto di riforma degli assetti contrattuali e sulle regole della contrattazione utile a frenare la smania dell’intervento normativo sulle relazioni industriali. L’anticiclone definitivo è stato il caos sui compensi di alcuni dirigenti apicali di Cisl (invero ancora da dimostrare) e la pubblicazione operata da Repubblica di alcuni conteggi interni a Cgil dimostranti un fortissimo calo di iscritti (notizia poi corretta dallo stesso sindacato).
Prevedibilmente le segreterie della triplice, accerchiate da un potentissimo fuoco mediatico, hanno fatto quadrato evidenziando come i ripetuti attacchi abbiano lo scopo di delegittimare il sindacato e contemporaneamente legittimare l’intervento parlamentare, che sarebbe una “prima volta” assoluta per la nostra legislazione sul lavoro, da sempre costruita sul delicato equilibrio legge-autonomia collettiva-contratto. Il teorema di Cgil, Cisl e Uil (l’attacco al sindacato è funzionale agli scopi della politica) è tutt’altro che infondato, ma terribilmente debole mediaticamente.
Una così grande eco è generata non tanto dalla gravità morale dei comportamenti contestati (la cui responsabilità è sempre evidentemente del singolo e non dell’associazione), ma dall’ulteriore prova che questo “scandalo” porta alla sempre più diffusa accusa che il sindacato sia un’istituzione debole e superata. È questo il giudizio profondo che deve essere attaccato dal sindacato; è questa l’argomentazione forte della politica, che poi usa notizie di volta in volta diverse per confermare e ancor più disseminare quel teorema che il sindacato deve riconoscere essere condiviso a tutti i livelli della società, in primis tra i lavoratori più giovani e tra i disoccupati.
In altre parole, ciò che lavoratori e non lavoratori contestano al sindacato è la sua inconcludenza. Di conseguenza, la principale risposta del sindacato dovrebbe essere quella di re-iniziare a “concludere”, ovvero a ottenere risultati concreti, positivi ed efficacemente comunicati. Questo già accade, ma spesso il sindacato preferisce alla narrazione dei successi ottenuti in azienda e sui territori la pubblicazione di grandi comunicati stampa sulla politica economica, interviste sull’esigenza di concertazione col Governo, opinioni finanche sulla Rai. È questo a essere crescentemente ignorato o mal sopportato dall’opinione pubblica: quale lo scopo di un sindacato che fa politica generalista in uno dei momenti più difficili per l’occupazione italiana?
Questa, in sintesi, la domanda retorica che il Primo Ministro non si stanca mai di ripetere quando parla di relazioni industriali. Certamente si tratta di un quesito superficiale, ignorante del passato e delle particolarità del nostro mondo sindacale, ma molto efficace per sostenere la tesi “il sindacato stia nel suo recinto”, che è poi a grandi linee la posizione del Governo sul tema e il motivo del desiderato intervento legislativo.
Come uscire da questo asfissiante accerchiamento? La dialettica mediatica è la strategia peggiore. Chi viene accusato di parlare troppo non è efficace se si difende parlando ancor di più. Meglio allora il racconto dell’importanza del sindacato non quando è seduto nella Sala Verde di Palazzo Chigi, ma quando contratta nelle centinaia di migliaia di imprese italiane. Non c’è niente da inventare: si tratta di riscoprire e, soprattutto, comunicare, il nucleo dell’azione sindacale, che non è la rappresentanza politica dei lavoratori, ma la promozione e la difesa del lavoro e del suo significato.
Scriveva Mario Romani nel 1969: «Dovrebbe essere un impegno di tutti, quello di tenere il più possibile lontana l’azione sindacale dalle evasioni e dai falsi problemi e tenerla, invece, il più vicina alle vere questioni che formano ostacolo al progresso economico e sociale dei lavoratori. Certo, non andare per le vie della facile evasione e cercare, invece, di stare più vicino possibile ai veri e concreti problemi che la tutela mette davanti giorno per giorno, richiede il coraggio delle decisioni impopolari».
Nel periodo del Jobs Act, ovvero dell’intervento normativo sul lavoro che, indipendentemente dal valore delle singole disposizioni tecniche, più di ogni altro in passato mira a una marcata disintermediazione della regolazione lavoro (quindi al superamento dei corpi intermedi, tanto sindacali quanto datoriali) e a un’individualizzazione del rapporto di lavoro (quindi più contrattazione individuale e meno contrattazione collettiva, tanto di primo quanto di secondo livello), sarebbe davvero importante prendere “decisioni impopolari” (in termini di gestione del potere) e tornare a mostrare alla società e alla politica che il fenomeno sindacale è una dimensione inevitabile del lavoro umano, un’esigenza naturale della persona che cerca nel “noi” non solo e non tanto un luogo di difesa contro lo “sfruttamento capitalistico”, quanto la possibilità di trovare un significato nel lavoro di tutti i giorni, qualunque esso sia e ovunque sia svolto.
Non conta la legittimazione “dall’alto”, la concessione di parola data dalla politica. Solo una rilegittimazione “dal basso”, determinata dal convinto e volontario (prima ancora che numeroso) consenso di lavoratori e non lavoratori può far sì che il sindacato riguadagni quel consenso che inevitabilmente lo renderà interlocutore necessario per il Parlamento e per il Governo.
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