«È giusto consentire di andare in pensione ai lavoratori precoci con più di 40 anni di contributi, così come creare canali preferenziali per le donne che hanno meno contribuiti perché hanno passato i migliori anni della loro vita a prendersi cura della famiglia. In entrambi i casi però non basta una sanatoria, occorre risolvere il problema alla radice». È la tesi di Luigino Bruni, professore di Economia politica all’Università Lumsa di Roma. Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro alla Camera dei deputati, ha proposto di istituire la cosiddetta “Quota 41”. In pratica chi ha iniziato a lavorare molto giovane secondo questa proposta potrà andare in pensione con 41 anni di contributi, a prescindere dall’età e senza penalizzazioni. Ma al centro del dibattito ci sono anche donne ed esodati.



Che cosa ne pensa di “Quota 41” proposta da Cesare Damiano? È una soluzione interessante per i lavoratori che in passato hanno iniziato molto giovani e quindi oggi a meno di 60 anni hanno raggiunto i 41 anni di contributi. Non la ritengo però la modalità da privilegiare per il futuro, perché il numero delle persone che oggi entrano nel mercato del lavoro a 15 anni è in grande calo proprio in quanto c’è un innalzamento progressivo del periodo scolare. Anzi allo stato attuale è da scoraggiare che un 15enne smetta di studiare e vada a lavorare.



Quindi è a favore o contro la proposta di Damiano? Quota 41 non è una grande soluzione pensando al futuro, anche se rispetto al presente può andare bene. Un 15enne che va a lavorare normalmente fa mestieri molto semplici, manuali e senza una grande qualità tecnica o intellettuale. Mi sembra quindi giusto che dopo 41 anni si possa dedicare ad altro. Più in generale, l’Occidente deve puntare a una riduzione del numero di anni di lavoro per tutti. Il lavoro non può occupare tutto lo spazio vitale di una persona negli anni migliori di una vita, bensì soltanto una parte. Vedo quindi con favore che una persona che ha lavorato per più di 40 anni possa andare in pensione prima.



Che cosa si può fare invece per le donne che hanno meno contributi perché hanno dedicato degli anni alla maternità o alla cura dei familiari? In primo luogo occorre una sanatoria per quelle donne che in passato hanno svolto servizi di cura in un modo sproporzionato rispetto agli uomini. Non dimentichiamo che in Italia il boom economico e industriale negli anni passati è stato reso possibile dal fatto che c’era un “esercito” di donne che svolgeva servizi di cura non pagati per i loro mariti. Noi abbiamo un debito relazionale e di cura nei confronti delle donne che è impressionante. È giusto quindi compiere una sanatoria e cercare di allineare le posizioni delle donne che hanno sacrificato gli anni migliori della loro vita lavorativa per occuparsi di servizi di cura familiare.

Lei auspica una soluzione che vada alla radice del problema. Quale sarebbe?

Per quanto riguarda il futuro mi voglio augurare che questi lavori di cura siano più ridistribuiti tra tutte le persone. Non possiamo pensare che le donne continuino a svolgere come accade oggi una media di 105 minuti al giorno di lavoro di cura dentro casa e fuori. Dobbiamo mettere in campo un patto sociale dove la cura sia distribuita fra uomini e donne di tutte le età, e non siano soltanto le donne a occuparsi di persone con deficit di cura.

 

Presto potrebbe arrivare una settima salvaguardia per gli esodati. Si riuscirà a chiudere la questione una volta per tutte?

Mi auguro di sì, anche perché la questione esodati è nata insieme a una riforma, quella della Fornero, che doveva funzionare per un tempo limitato. In realtà gli esodati sono ancora prodotti dal sistema. Continua a esserci gente che perde il lavoro in quanto il Jobs Act rende più facile licenziare i dipendenti meno efficienti quando superano i 50 anni. Anche se si risolvesse la situazione dei primi esodati, se noi non immaginiamo una legislazione del lavoro che possa salvaguardare anche le persone meno efficienti, il problema continuerà a riproporsi.

 

(Pietro Vernizzi)