«Non possiamo far dipendere l’implementazione del Jobs Act dall’esigenza vincolante di ricollocare qualche migliaio di dipendenti dei Centri pubblici per l’impiego”. Stefano Colli-Lanzi, amministratore delegato di Gi Group e vicepresidente di Assolavoro, lo ripeterà oggi pomeriggio al ministro del Welfare, Giuliano Poletti, durante l’incontro “Formazione, apprendistato, flexicurity: la via italiana per sostenere lo sviluppo e l’occupazione”. Ieri Colli-Lanzi era in platea all’auditorium del Meeting di Rimini ad ascoltare Matteo Renzi. «Il premier ha fatto bene a ricordare l’importanza del Jobs Act – dice a ilsussidiario.net – è la riforma economica di più forte impatto fra quelle varate finora dal suo governo. L’aver rivisitato il contratto a tempo indeterminato, rimettendolo al centro del mercato del lavoro nell’Italia del 2015 non è solo un grande risultato sul piano politico-economico: è anche una giusta rivalutazione di una tradizione di cultura del lavoro, basata su un ”rapporto” che impresa e lavoratore che è spesso più investimento di medio periodo che costo di brevissimo termine. Se il successo politico è acquisito e indiscusso, la riforma comincia ora sul terreno degli strumenti applicativi. E il grosso potenziale di cambiamento del Jobs Act rischia di essere vanificato».



Jobs Act è sinonimo di flessibilità.

Sì ed è su questo fronte che il governo ha affrontato direttamente le resistenze sindacali in sede di dibattito politico. Ora, però, deve vincere la scommessa sul mercato del lavoro: deve dimostrare che un lavoratore che perde il suo posto può ritrovarlo, anzi: lo ritrova. La riforma è meritoria quando afferma il principio che la vera ”tutela”, nel ventunesimo secolo, è un mercato del lavoro efficiente, cioè cambiato da nuove politiche attive e da più moderni ammortizzatori sociali. Fino a che il disegno rimane sulla carta e non si costruiscono nuove ”infrastrutture” nel mercato del lavoro la riforma non può decollare. Le agenzie del lavoro sono pronte a fare la loro parte, attendono gli strumenti operativi. E questi non possono che essere messi a punto a livello di governo centrale, senza che la linearità della riforma venga deformata da spinte e pressioni locali.



Le regioni stanno mostrando limiti nel gestire le politiche del lavoro?

Purtroppo sì. Si salva solo la Regione Lombardia, che ha mostrato una eccellente capacità di far funzionare la sussidiarietà nel mercato del lavoro. Il ruolo della agenzie del lavoro non è antitetico a quello delle strutture pubbliche: è una visione legata a residui ideologismi. Quello che conta è l’efficacia delle politiche volte a dare massima efficienza a un mercato. Vedo solo opportunità nella concorrenza fra agenzie pubbliche e private. Se la competizione funziona è il lavoratore a trarne beneficio.



Il ruolo di un più moderno sistema di intermediazione del lavoro viene talora guardato con cautela anche dal fronte imprenditoriale.

È vero e la ragione sta, a mio avviso, in una scorretta messa a fuoco della riforma: una riforma che ha voluto giustamente semplificare fortemente il catalogo dei contratti, eliminando quelli meno tutelanti. In questo contesto dare più ruolo alle agenzie del lavoro – ad esempio nella gestione della flessibilità con il contratto di somministrazione – può comportare nell’immediato un piccolo aggravio di costi per l’utilizzatore, ma i benefici dello sviluppo nel tempo di una reale ”flexicurity” basata sull’intervento intermediario andranno anche alle imprese.

 

In autunno il ministro del Lavoro è atteso al varco della flessibilità in uscita dei lavoratori più anziani. Le politiche attive del lavoro sono una risposta anche a questo dossier, a fianco dell’ingresso flessibile nel sistema previdenziale?

Credo che le agenzie del lavoro possano fare molto anche su questo versante. Che però si profila, per molti versi, la gestione di un’emergenza, di un riassestamento dell’economia e della società italiana. La priorità del Jobs Act rimane – e deve rimanere – la creazione di modalità strutturali di funzionamento del mercato del lavoro. 

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