Dopo Annamaria Furlan, al Meeting di Rimini è arrivato Gigi Petteni, Segretario Confederale della Cisl, che ha preso parte a un incontro con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Settembre è ormai alle porte e l’autunno rischia di essere caldo, anche perché i sindacati durante l’estate sono finiti sui giornali, non sempre uscendone con una buona immagine. Sembra anche esserci l’intenzione di varare una legge sulla rappresentanza e il diritto di sciopero. E Petteni non nasconde che questo non è un momento facile, anche se le organizzazioni dei lavoratori hanno la possibilità di reagire.
Inchieste sul numero degli iscritti, articoli sugli stipendi dei dirigenti, voci insistenti di una legge sulla rappresentanza: Petteni, possiamo dire che i sindacati sono “sotto attacco”?
I sindacati sono sotto attacco, un po’ come in questi ultimi tempi tutti i corpi intermedi, che non sono considerati più una risorsa, ma anzi un fastidio. In alcuni casi ci sono delle responsabilità, ma credo che i corpi intermedi devono cogliere i cambiamenti che ci sono e dimostrare di essere all’altezza della situazione, in particolare mediante una capacità di proposta. È una sfida importante, perché se nelle nostre comunità viene meno una società organizzata, c’è un impoverimento generale.
Il sindacato può quindi reagire e uscire dall’angolo?
Sì, stiamo mettendo in atto processi di cambiamento, forse non sono ancora sufficienti e bisogna accelerare un po’ di più. E forse dobbiamo anche lavorare meglio su una domanda di fondo che negli ultimi anni abbiamo eluso o data per scontata: cos’è il lavoro? La qualità, la quantità, i luoghi, i redditi da lavoro sono dimensioni che sottendono a questa domanda di fondo. Il lavoro per una persona non è solo reddito, ma anche relazione, realizzazione. Penso che in una fase come questa dobbiamo farci qualche domanda di fondo, perché da esse discendono delle politiche efficaci.
Nelle ultime settimane i dati Inps e Istat sono stati utilizzati per esprimere giudizi sul Jobs Act. Lei cosa pensa di questa riforma?
Questa riforma ha al centro un aspetto che riteniamo molto importante. Negli ultimi anni il contratto a tempo indeterminato era residuale, mentre i dati più recenti ci dicono che il suo utilizzo sta crescendo. Per noi questo è importante, perché un lavoro più stabile porta a migliorare l’investimento sulla persona e si tratta di un aspetto cruciale sia per l’impresa che per il lavoratore.
Però non c’è più la tutela del vecchio articolo 18.
L’articolo 18 del futuro, dei nostri figli, dei nuovi lavoratori, si chiama formazione. Che si traduce nella capacità di potersi muovere da un posto all’altro – per propria scelta oppure per necessità quando finisce un processo produttivo – perché si hanno competenze e capacità. Da questo punto di vista noi chiediamo che nella riforma del modello contrattuale ci sia molto più investimento sulla formazione e bisognerebbe far sì che le ore a essa dedicate vengano detassate per le imprese. Anche sull’apprendistato sono disponibile a scambiare formazione vera con minor salario nell’inserimento lavorativo, così da rafforzare in prospettiva i lavoratori.
A proposito di apprendistato, da anni si cerca, senza molto successo, di farlo diventare il contratto di inserimento nel mondo lavorativo. Ci si riuscirà ora con il Jobs Act?
Spero che il ministro Poletti ascolti gli operatori generosi, quelli che hanno una visione. Penso che dobbiamo sperimentare strade nuove in questa direzione e il meglio della sperimentazione farlo diventare modello. Sulle politiche attive abbiamo l’esempio della dote lavoro della Lombardia da cui potremmo partire.
Proprio sulle politiche attive c’è però il rischio di un’eccessiva centralizzazione…
Credo che ci possa essere spazio per avere delle linee di indirizzo generali e degli elementi specifici di azione nei territori. Ci deve essere un equilibrio tra un governo di questi processi a livello generale e la possibilità di azione a livello territoriale.
Tornando al Jobs Act, non crede che si sia ampliato il dualismo già esistente tra il settore pubblico e quello privato, dato che la riforma non si applica alla Pubblica amministrazione?
Mi auguro che si possa andare verso un mercato del lavoro il più omogeneo possibile. Anche perché non ci sono più le ragioni che c’erano in passato per giustificare una differenza tra pubblico e privato. L’applicazione della riforma nel pubblico impiego avrebbe vantaggi per tantissimi lavoratori, anche perché oggi uno dei settori che usa di più collaborazioni e contratti a progetto, che si regolamentano meglio nel privato, è proprio il pubblico. Spero che come avvenuto in ambito pensionistico si possa arrivare anche in quello del lavoro a un’omogeneità. Se avviene con il concorso delle Parti sociali ancora meglio.
Ultimamente si parla dell’opportunità di rinnovare la decontribuzione per i contratti a tempo indeterminato. Lei cosa ne pensa?
Siamo stati sostenitori di questa defiscalizzazione perché occorreva rimettere al centro, anche a livello culturale, il tempo indeterminato. Ho avuto un sussulto ogni volta che sentivo dire, anche da sindacalisti, che si trattava di un regalo alle aziende, perché vuol dire non vivere nella realtà, dato che si sta finalmente favorendo una forma di lavoro migliore. Penso che nella prossima Legge di stabilità bisognerebbe passare a sgravi più mirati, individuando quelle fasce o situazioni che hanno più bisogno di sostegno.
Dalla prossima Legge di stabilità cosa vi aspettate? È parso che Furlan chiedesse l’introduzione di una patrimoniale…
Dalla Legge di stabilità ci aspettiamo interventi importanti, in particolare sulla crescita, perché abbiamo un tasso di disoccupazione superiore al 12%. Speriamo in una flessibilità europea che permetta di superare l’austerità: c’è bisogno di allargare un po’ i cordoni della borsa, anche a fronte degli sforzi che il Paese sta facendo. Più che un discorso di patrimoniale, noi vorremmo che nella situazione attuale, dove la forbice di povertà si sta ampliando, coloro che hanno di più diano qualcosa di più, in modo che le fasce più basse abbiano un po’ più di ossigeno e possano alimentare la domanda interna.
Sembra che nella Legge di stabilità ci sarà anche un intervento sulle pensioni. Rispetto alle diverse ipotesi in campo qual è la sua preferita?
La necessità di una flessibilità pensionistica è sotto gli occhi di tutti. Continuo a pensare che occorra una sorta di contratto di solidarietà intergenerazionale, attraverso cui un lavoratore vicino alla pensione può uscire con meccanismi di flessibilità e l’azienda assumere un giovane. Si tratterebbe anche di uno strumento per ricostruire rapporti positivi tra le generazioni.