«La flessibilità è la soluzione migliore per categorie diverse tra loro come i lavoratori precoci, gli anziani vicini alla pensione, i neolaureati e le stesse persone che desiderano restare al lavoro fino in tarda età. I due pilastri devono essere libertà di scelta e rispetto dell’equilibrio dei conti pubblici». Lo sottolinea Annamaria Parente, senatrice del Pd e membro della commissione Lavoro, alla luce del dibattito sulla riforma delle pensioni che nelle scorse settimane ha registrato anche le aperture del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Tra le proposte anche quella del presidente della commissione Lavoro alla Camera, Cesare Damiano, che ha ideato la cosiddetta “Quota 41” per i lavoratori precoci. In pratica chi ha iniziato a lavorare molto giovane potrà andare in pensione con 41 anni di contributi, a prescindere dall’età anagrafica e senza penalizzazioni.



Quali soluzioni ritiene che vadano trovate per i lavoratori precoci che vogliono andare in pensione? Trattandosi di persone che in alcuni casi lavorano dall’età di 15 anni, bisogna dare loro la possibilità di andare in pensione. Per trovare una soluzione basterebbe già il fatto di prevedere forme di flessibilità in uscita per tutti. In questo modo si eviterebbero forme di sperequazione tra chi è andato al lavoro a 17 anni e chi è andato a 18. Il dibattito che si sta sviluppando nel governo sulla flessibilità in uscita per tutti è la strada principale.



Lei è favorevole a “Quota 41” proposta dall’onorevole Damiano? Ritengo che occorra una certa cautela, anche perché per chi è andato a lavorare a 15 anni, dopo 41 anni di contributi ne ha 56. È un’età abbastanza giovane, e noi dobbiamo anche lasciare la possibilità alle persone di scegliere di non andare in pensione. Un sistema di flessibilità in uscita per tutti dovrebbe lasciare la possibilità di scelta alle persone, inclusa la possibilità di rimanere al lavoro.

A partire da quale soglia ritiene che si debba poter andare in pensione? A partire da almeno 40 anni di contributi e 58 anni di età. Ma soprattutto tengo a precisare che non è un problema di quote, quanto piuttosto di lasciare libertà di scelta. Abbiamo due temi: il primo è la compatibilità dei conti pubblici, il secondo è la necessità di dare lavoro ai giovani. Dobbiamo trovare il sistema di flessibilità in uscita che consenta di poter scegliere liberamente e non creare ulteriori rigidità.



Qual è la percentuale di penalizzazione che ritiene più adeguata?

È una questione che andrà approfondita nelle prossime settimane. Bisognerà tenere conto di diversi fattori, evitando di pesare sui conti pubblici e nello stesso tempo di colpire i lavoratori.

 

La settima salvaguardia per gli esodati riuscirà a risolvere il problema una volta per tutte?

La commissione Lavoro al Senato ha realizzato un sondaggio da cui risulta che molti di quelli che hanno risposto non sono ascrivibili alla categoria degli esodati. Di questi ultimi ne rimangono ancora pochi, anche se ovviamente vanno salvaguardati i casi individuali. La maggioranza di quanti hanno partecipato al sondaggio sono però persone vicine alla pensione che vogliono uscire dal mercato del lavoro. Proprio per questo la principale politica da attuare è la flessibilità in uscita.

 

A quali categorie appartengono queste persone vicine alla pensione?

Le categorie che al momento dell’approvazione della legge Fornero erano in mobilità o coperte da accordi sindacali sono già state salvaguardate nel corso degli anni. Ora vanno pensate forme di flessibilità in uscita per le persone a cui è stata innalzata l’età pensionabile e resta da lavorare per altri due o tre anni. Avremo quindi persone che con forme di flessibilità possono andare in pensione prima.

 

La strada per favorire l’occupazione dei giovani è mandare in pensione gli anziani?

Ritengo che un anziano che vuole continuare a lavorare debba essere lasciato libero di farlo. Il punto è che l’età media dei lavoratori si è alzata eccessivamente, e questo se da un lato favorisce l’equilibrio dei conti pubblici, dall’altra blocca l’ingresso dei giovani al lavoro. Se parliamo con le aziende ad alta tecnologia, avere lavoratori di 60 anni e non potere assumere dei neolaureati è un problema.

 

(Pietro Vernizzi)