I soldi per gli esodati vanno trovati a ogni costo e la flessibilità è un’esigenza imprescindibile. Ma in condizioni normali non si può pensare che una persona vada in pensione prima dei 63 anni”. Lo sottolinea Alberto Brambilla, esperto di pensioni, consulente del ministero del Lavoro ed ex sottosegretario al Welfare dal 2001 al 2005. Mercoledì durante l’incontro in commissione Lavoro alla Camera dei deputati, il Mef ha fatto sapere che i 500 milioni di euro per la settima salvaguarda degli esodati non sono più disponibili e che mancano le coperture anche per Opzione Donna, cioè per l’uscita anticipata per le lavoratrici in cambio del ricalcolo dell’assegno con il solo sistema contributivo. Il presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano, ha commentato: “Noi e il ministero del Lavoro non concordiamo con l’interpretazione restrittiva del Mef, che demolisce le fondamenta della legge, per me è inaccettabile”.



Chi ha ragione, il Mef o il presidente Damiano?

Avevamo stimato che gli esodati fossero un certo numero e sono state fatte sei salvaguardie per un totale di 170mila persone. Di queste lo scorso 15 aprile quelle accertate erano 90mila. Rispetto agli stanziamenti previsti per le salvaguardie tra la prima e la sesta, una parte di questi quattrini non sono stati spesi. Siccome erano stati dedicati alla soluzione del fenomeno esodati, prodotto dal salto di età anagrafica determinato dalla legge Fornero, è chiaro che questi soldi vanno reimpiegati.



Reimpiegati in che modo?

Per i 26mila esodati inclusi nella settima salvaguardia bisogna utilizzare le risorse, pari a oltre 500 milioni, che non sono state spese per questo stanziamento. Anche perché questi non saranno proprio gli ultimi: è probabile che nel 2016 ci possa essere un’ulteriore piccola coda. E’ pacifico che se il problema è stato risolto per i più bisognosi con le sei salvaguardie, quello che si è risparmiato vada inserito in questa settima salvaguardia.

L’obiettivo del Mef è anche mandare un segnale politico contro la flessibilità pensionistica?

Non vorrei fare dietrologie. E’ fuor di dubbio che il Paese ha bisogno per una serie svariata di motivi della flessibilità pensionistica e il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, lo sta ripetendo in tutti i modi. Poi si può discutere sulle formulazioni più adeguate, ma è pacifico che vanno superate le rigidità. Non penso però che il Mef voglia dare un segnale politico in direzione opposta. Il Mef vorrebbe risparmiare un po’ di quattrini, se il presidente del Consiglio e il ministro del Lavoro gli diranno che invece occorrono, li metterà a disposizione.

Anche su Opzione Donna è emerso un problema di cassa. E’ vero come dice Damiano che la misura sarebbe a costo zero?

Opzione Donna può essere inserita all’interno della flessibilità. Non si può pensare che una donna, con un’aspettativa media di vita di quasi 86 anni, vada in pensione a 57 anni. Significherebbe infatti pagarle 30 anni di pensione. Per avere una pensione buona, 35 anni di contributi sono il requisito minimo.

 

Basta il requisito dei 35 anni di contributi?

No. Se per 35 anni una donna ha pagato meno del 30% di contributi, a volte anche il 20%, e poi con la pensione le va dato il 75% del primo stipendio i conti non tornano. All’interno della flessibilità, si può ipotizzare che le donne vadano in pensione a 63 anni, e si può anche stabilire che se una donna ha avuto dei figli le si può fare uno sconto di uno o due anni.

 

Lei è favorevole alle penalizzazioni?

Chi si ritira dal lavoro a 63 anni deve assoggettarsi ai cosiddetti “correttivi attuariali”: non può prendere cioè la stessa pensione che avrebbe preso se ci fosse andata a 66 anni. Altrimenti vuole dire che c’è qualcuno che deve pagare al suo posto, e guarda caso questo qualcuno sono i giovani.

 

Con quali conseguenze?

Da un lato i politici si strappano le vesti perché il 40% dei giovani sono senza lavoro, ma poi il costo del lavoro è così elevato perché lo Stato deve spendere 300 miliardi di euro per le pensioni e 80 miliardi per finanziare il debito pubblico. Nessun Paese ha costi così elevati. La disoccupazione in Italia è stata dunque provocata da un costo del lavoro molto alto, un sistema pensionistico che fino a qualche anno fa era troppo generoso e un debito pubblico che si è gonfiato.

 

(Pietro Vernizzi)