“Dicendo che non ci sono i soldi per la settima salvaguardia degli esodati, ritengo che i funzionari del ministero dell’Economia in realtà intendano dare un segnale politico sul tema della flessibilità pensionistica. E’ possibile che il Mef tema infatti un arroccamento dei sindacati sull’uscita anticipata senza penalizzazioni”. E’ l’analisi sulla riforma delle pensioni di Luca Spataro, professore di Economia Politica all’Università degli Studi di Pisa. Mercoledì durante la riunione della commissione Lavoro della Camera dei deputati, il Mef ha fatto sapere che i 500 milioni necessari per la settima salvaguardia sono già stati incamerati e non potranno più essere utilizzati per questo scopo. Il presidente della commissione, Cesare Damiano, ha commentato: “Per noi questo è inaccettabile, la questione diventa politica e va affrontata a livello di ministri competenti”.



Professore, che cosa ne pensa di quanto è avvenuto in commissione?

E’ una questione di civiltà prendere atto che sono rimasti questi esodati, e che non è colpa loro se si trovano nella condizione attuale. In Italia abbiamo applicato una riforma che per motivi di salvaguardia dei conti pubblici ha dovuto usare l’accetta. Concordo quindi con quanti affermano che queste risorse vadano assegnate a favore degli esodati.



Come si spiega allora la presa di posizione del Mef?

Credo che il Mef abbia deciso di intervenire per dare un segnale rispetto al tema della flessibilità. C’è una questione politica con cui sia i sindacati sia il governo devono fare i conti per trovare una via d’uscita. La partita in realtà è più estesa e riguarda proprio i cambiamenti che sono stati paventati nel corso dell’estate circa la questione della flessibilità. Si tratta di schermaglie che sono preliminari rispetto a una partita ben più importante.

Qual è la posizione di Renzi su questo tema?

Sulla flessibilità c’è stato un momentaneo stop di Renzi, con la possibilità di una discussione in sede di Def. Il premier ha chiarito una cosa che assolutamente condivido, e cioè che la flessibilità deve essere a costo zero per lo Stato. Non può quindi andare a gravare ulteriormente sulle casse dello Stato. L’Italia è uno dei Paesi dove la spesa pensionistica è tra le più alte nei Paesi Ocse.

Come si spiega questa anomalia?

Anche se le riforme sono state fatte c’è ancora una situazione transitoria, in cui vige ancora una parte di sistema retributivo. A meno che il rischio demografico, cioè l’allungamento della vita media, sia neutralizzato, questo fa sì che per dieci o quindici anni i lavoratori che andranno in pensione prenderanno un assegno superiore rispetto ai contributi versati.

La soluzione è rinunciare alla flessibilità?

No, ma la flessibilità è un principio sacrosanto in una situazione in cui il sistema previdenziale ha esaurito il tempo necessario per entrare a regime. Mentre non può essere attuata se non a costo zero in una situazione in cui ci sono ancora quote di retributivo, cioè “regali” in termini attuariali che il sistema previdenziale riconosce ai pensionandi. Renzi ha già detto che la flessibilità deve essere a costo zero per lo Stato.

 

Perché allora il Mef sente l’esigenza di intervenire dando un segnale politico?

Il Mef teme un arroccamento da parte dei sindacati sulla questione del “costo zero”. Il concetto di flessibilità deve andare di pari passo con quello dell’equità attuariale. Se uno va in pensione uno o due anni prima, non può avere la stessa pensione che avrebbe altrimenti. Questo va a ledere proprio il principio dell’equità, per cui una persona ha diritto a percepire pensioni che sono esattamente identiche in valore attuale ai contributi versati.

 

Penalizzazioni eccessive non rischiano di rendere inutile la stessa flessibilità?

Le penalizzazioni non sono scippi ai danni dei lavoratori, bensì calcoli meramente attuariali che consentono di salvare i conti pubblici. In passato la materia previdenziale è stata fatta oggetto di contrattazione tra le parti sociali. Siccome però la previdenza si regge su equilibri economico-attuariali, bisogna riconoscere una volta per tutte che il sistema previdenziale non può essere fatto oggetto di contrattazione.

 

(Pietro Vernizzi)