Iniziato a dicembre 2014, è giunto oggi quasi al termine il cammino dell’ormai celebre “Jobs Act” che dovrebbe ridisegnare il nuovo mercato del lavoro, dall’ambito contrattuale e della semplificazione a quello della rete dei servizi per l’impiego, alla ricollocazione, al sistema delle ispezioni e degli ammortizzatori sociali.
È negli ultimi quattro decreti in attesa di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale che il Jobs Act modifica, per la prima volta e dopo più di quarant’anni, lo Statuto dei lavoratori (L. 300/1970) all’articolo 4, nella disciplina dei controlli a distanza, così come già fatto in materia di mansioni (art. 2113 c.c.) e licenziamenti individuali (art. 18 L. 300/1970).
È innanzitutto confermato il principio per cui tutti gli strumenti potenzialmente “pericolosi” per il controllo a distanza dei dipendenti possono essere utilizzati solo previo accordo sindacale (oppure autorizzazione amministrativa), fermo restando che siano impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale. Ma- ed è qui il reale punto di modernizzazione dell’istituto – la regola viene finalmente adattata alla realtà tecnologica di oggi tramite l’esonero dalla procedura autorizzativa per i casi di utilizzo di tutti quegli strumenti indispensabili per l’attività lavorativa (come smartphone, pc, tablet, pc collegato alla rete aziendale, rilevatori di entrata e di uscita, ecc.).
Questa innovazione era ormai doverosa e urgente, perché una materia così importante non poteva continuare a essere disciplinata da una legge pensata per un contesto produttivo nel quale l’unico strumento tecnologico utilizzabile per controllare i lavoratori era una telecamera e gli strumenti di lavoro “carta e penna”. Se fosse stata applicata in maniera rigorosa la precedente disciplina in cui la disposizione rinviava genericamente ad “altre apparecchiature” si sarebbe resa necessaria l’autorizzazione (sindacale o amministrativa) anche per la consegna di un tablet al dipendente.
Il Jobs Act agisce così colmando un vuoto normativo: negli anni, la questione del controllo a distanza sul lavoratore effettuato con strumenti diversi dalle telecamere è stato affrontato, su sollecitazione di una realtà lavorativa in continua evoluzione, non dal legislatore, ma solo dai soggetti intermedi. Ne sono un esempio il ministero del Lavoro in risposta a interpello n. 218 del 6/06/2006 sul tema delle apparecchiature che controllano i costi del servizio telefonico per chi svolge attività di telemarketing, il Garante per la Privacy sul tema del controllo informatico – lecito – di posta elettronica e internet effettuato in presenza di una policy interna conforme alle linee guida del 1/03/2007 e infine la magistratura del lavoro (ad esempio, con Cass. n. 4375 del 23/02/2012 la Corte ha ritenuto non utilizzabili per un licenziamento i dati raccolti di accessi internet avvenuti durante l’orario di lavoro per ragioni non di servizio, poiché l’installazione del programma non era avvenuta in conformità dell’art. 4).
Tutti i soggetti chiamati a pronunciarsi sul punto erano comunque tenuti ad applicare l’art. 4 e per l’espressione usata di “altre apparecchiature” c’era sempre il rischio, incombente e peraltro normativamente fondato, che per l’utilizzo degli strumenti indispensabili per l’attività lavorativa fosse richiesta la procedura di autorizzazione.
Ad esempio, in tema di privacy è chiaro che si tratti di materia che non può invadere il terreno dello Statuto dei lavoratori: lo ha detto ad esempio sin dal 2003 lo stesso Codice Privacy in cui si rinvia integralmente alla disciplina dell’articolo 4, e il Garante nel Provvedimento dell’8/04/2010 in cui è chiaramente espresso il principio che il codice privacy è regolamentazione aggiuntiva rispetto a quella settoriale del potere di controllo del datore, con esito che deve comunque essere effettuata una lettura integrata dei due sistemi normativi.
Applicazioni rigide dell’articolo 4 sono state evitate, in questi anni, anche grazie al fatto che né sindacati, né ispettori del lavoro hanno mai imposto un’autorizzazione per pc o smartphone: questo silenzio “doveroso” non era comunque sufficiente ad aggiornare una norma ormai vecchia e inadeguata. Si tratta quindi di una novità importante, che servirà soprattutto a diminuire incertezze e appesantimenti burocratici.
L’altro cambiamento, sebbene non del tutto chiaro riguarda, poi, l’utilizzo delle informazioni raccolte in maniera regolare da impianti audiovisivi preventivamente legittimati, o da un accordo sindacale oppure da un’autorizzazione amministrativa, o dagli strumenti di lavoro. Secondo il testo della disposizione, a oggi noto, tali informazioni sono utilizzabili “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro“, quindi anche ai fini disciplinari.
A ben guardare, sulla questione la riforma non vuole introdurre un principio rivoluzionario, come da più parti si è paventato, ma piuttosto si preoccupa di dare copertura legislativa agli approdi cui è giunta in particolare la giurisprudenza. Ricordo infatti che è ormai consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo il quale il divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dei lavoratori riguarda l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro. Invece, pur nelle garanzie procedurali dell’art. 4, devono ritenersi ammessi i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cosiddetti controlli difensivi) che riguardano la tutela avverso atti lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale (V. per tutte Cass. 23.2.2010, n. 4375 e più di recente Cass. Sez. Lav. 17.02.2015, n. 3122 in cui era stato acquisito, visionato e utilizzato come prova nel licenziamento per giusta causa di più lavoratori, un filmato in cui gli addetti al carico di carburante nelle autobotti, avevano compiuto plurime azioni fraudolente finalizzate alla sottrazione di carburante aziendale).
Peraltro, la bozza di decreto prevede esplicitamente che resta invariata la protezione del diritto alla riservatezza del lavoratore prevista dal Codice e presidiata dall’Autorità stessa e che l’utilizzabilità delle informazioni è subordinata a un adempimento molto importante: il datore di lavoro deve dare preventiva e completa informazione ai lavoratori circa l’esistenza di strumenti di controllo, e circa le modalità con cui gli stessi sono utilizzati, nel rispetto di quanto previsto dal Codice Privacy.
Una lettera più riformistica della norma mal si concilierebbe, oltre che con la giurisprudenza che ha da sempre escluso l’utilizzabilità dei dati ottenuti “a distanza” per provare l’inadempimento contrattuale del lavoratore, anche con una recente Raccomandazione del 1° aprile scorso del Consiglio d’Europa, che in particolare auspica tra l’altro la minimizzazione dei controlli difensivi o comunque rivolti agli strumenti elettronici e il tendenziale divieto di accesso alle comunicazioni elettroniche del dipendente. In diritto comunitario la raccomandazione è un atto non vincolante diretto agli Stati membri e contiene l’invito a conformarsi a un certo comportamento; certo è che una legge nazionale contraria ai principi espressi nella raccomandazione permetterebbe all’interessato di adire la Corte di giustizia dell’Unione europea.
Le modifiche introdotte e qui descritte non sono una rivoluzione copernicana, ma un doveroso aggiornamento di norme che sono nate 40 anni fa in un contesto tecnologico inimmaginabilmente diverso da quello dell’ipertecnologia di oggi, per cui, a maggior ragione se è confermata la lettura che darei alla norma, in cui la tutela del lavoratore alla riservatezza e all’autonomia nello svolgimento della sua prestazione non viene meno (anzi), mi pare una posizione anacronistica e ideologica (che non vuole vedere la realtà del presente) quella di chi parla di “spionaggio dei lavoratori” o di “grande fratello”.