In tre anni (dal D.L. 201/2012 alla L. 147/2014) sono stati emanati sei provvedimenti di salvaguardia per i cosiddetti “esodati”: una media di uno a semestre. Ci si aspettava, in linea con il dato statistico, l’ennesimo provvedimento invocato dai sindacati che, preso atto del potenziale risparmio che si sarebbe registrato sui precedenti interventi, vorrebbero introdurre ulteriori deroghe alla Legge Fornero.
Come noto, sulla richiesta di emanare il settimo atto di salvaguardia il Governo ha preso tempo, motivando sia con la necessità di verificare e certificare i supposti risparmi di spesa, sia con l’esigenza di dover, comunque, adottare una disposizione normativa ad hoc per la relativa copertura finanziaria. Or bene, se è condivisibile la scelta effettuata in questi anni di proteggere coloro che – prossimi alla pensione sulla base della normativa previgente la riforma – hanno lasciato il posto di lavoro per precisi accordi aziendali, qualche perplessità maggiore si nutre per il tentativo di ampliare sempre più le fattispecie degne di tutela; fattispecie che, per come sono proposte, tendono a discostarsi sempre più da quella originaria trasformando l’intervento “riparatorio” in un vero e proprio ammortizzatore sociale.
Il rischio è che il continuo ricorrere ad atti normativi estemporanei di tipo inclusivo allontani la possibilità di individuare una soluzione strutturale che, a ben vedere, potrebbe essere rappresentata dal ricorso alla “flessibilità in uscita”. Ma su questo punto la partita è ancora tutta da giocare. In tema di principio, vi è una larga condivisione sull’esigenza di trovare dei meccanismi che responsabilizzino il cittadino nella scelta del momento in cui andare in pensione, ma il livello di penalizzazione dell’assegno che sottende a tale scelta risulta essere il vero elemento di confronto.
Tutti sono infatti d’accordo che l’operazione debba essere a costo zero (o quasi), salvo poi scoprire che tale esigenza è per alcuni riferita ai pensionandi e per altri alle casse dello Stato. Posto che parteggio per tale seconda lettura, bene fa il Governo a darsi qualche mese in più per ricercare una soluzione che possa, da un lato, favorire un’uscita anticipata dal mondo del lavoro e, dall’altro, evitare che ciò comporti oneri aggiuntivi per le generazioni future.
Purtroppo, su tale decisione pesa anche la lettura ragionieristica che l’Unione europea fa dei dati della spesa previdenziale statale. Secondo infatti i meccanismi di computo comunitario, l’onere previdenziale assume mero rilievo contabile, attraverso l’esame dei dati di spesa annuali, mentre i logici sistemi di valutazione attuariale ne richiederebbero la misurazione nel lungo periodo. Pertanto, un intervento sulla flessibilità in uscita, ancorché preveda un adeguato meccanismo di penalizzazione, porta nel breve periodo a una crescita della spesa pensionistica (in quanto aumentano coloro che andranno in pensione nell’anno), sebbene l’onere complessivo nel lungo periodo rimanga inalterato o, addirittura, possa risultare ridotto.
È chiaro che l’eventuale soluzione in tema di flessibilità assorbe anche la discussione sulla “opzione donna”, quantunque, sul punto, l’elemento tempo assuma una rilevanza ben maggiore. La normativa, infatti prevede che sino al 31/12/2015 le lavoratrici possono anticipare la data di pensionamento optando per un trattamento pensionistico calcolato con il metodo contributivo. L’Inps ha però interpretato tale termine quale data ultima di decorrenza del trattamento pensionistico, con la conseguenza che le interessate devono aver maturato i requisiti richiesti con un anno di anticipo rispetto alla scadenza. Da qui la richiesta di prevedere una proroga del periodo sperimentale, ovvero un intervento che chiarisca che entro tale data debbano essere maturati i requisiti di accesso, ancorché la decorrenza sia successiva.